Ave, Cesare!: la recensione
La nuova commedia dei fratelli Coen è un divertito omaggio al cinema di una volta
Il cinema è questione di fede, sembrano dirci i fratelli Coen nella loro diciassettesima fatica insieme, quella che prosegue idealmente la loro personalissima “trilogia degli idioti” composta da Fratello dove sei?, Prima ti sposo, poi ti rovino e Burn After Reading. La stessa fede che serve a Eddie Mannix (Josh Brolin) per portare avanti il suo lavoro da fixer della Capitol Studio, cercando di evitare scandali alle sue star, far felici i registi e tenere a bada la stampa assetata di gossip. Quando però il suo attore di punta, Baird Whitlock (George Clooney, la costante dei tre film sopra citati), impegnato sul set del kolossal biblico Ave, Cesare!, viene rapito da una loggia di sceneggiatori comunisti, tenere insieme i pezzi sembra diventare proibitivo.
I fratelli Coen con questa nuova commedia confezionano un omaggio divertito e disincantato alla fabbrica dei sogni, riscrivendo realisticamente la Hollywood degli anni ’50, saltellando da un set all’altro tra marinai ballerini (Channing Tatum), sirene acrobate (Scarlett Johansson) e cowboy canterini (Alden Ehrenreich). Il loro sguardo però non è solamente nostalgico, perché i Coen ci mostrano con ironia, proprio attraverso il deus ex machina Mannix, anche tutti gli aspetti meno luccicanti della grande macchina produttiva, fatta anche di cialtroneria, capricci e, fondamentalmente, business. Fortunatamente, però, il cinema rimane anche magia, la stessa che i registi impiegano con tocco lieve rendendo possibile anche la fuga di una star americana su un sommergibile sovietico in compagnia del proprio cagnolino, la stessa che permette a Mannix di continuare a lavorare e tornare a casa solo per un pasto frugale, pur tentato dall’offerta di una vita più tranquilla.
I due fratelli sicuramente non graffiano come in altre occasioni, alcune soluzioni appaiono un po’ stanche e l’intreccio non sempre si dipana fluidamente, ma il loro rimane comunque un cinema intelligentemente divertente, capace di ragionare sulla macchina filmica creando cortocircuiti geniali o di parlare di rappresentazione e messa in scena in modo semplice e illuminante. Il film infatti è costituito da un costante andirivieni tra la finzione del set e la (finzione della) realtà diegetica, l’inquadratura è spesso riadattata a schermo cinematografico, lo spettatore diventa consapevole di essere tale in quanto cullato dalla voce narrante che lo accompagna da una storia all’altra. Non mancano poi alcune perle di purissimo Coen-style, su tutte la scena in cui i tre rappresentanti delle confessioni cristiane e un rabbino ebreo vengono riuniti nell’ufficio di Mannix per esprimersi sul nuovo peplum in produzione, affinché questo non offenda nessuno dei quattro, portando a scambi di battute esilaranti.
Il finale, che gioca con l’ambiguità tra il monologo recitato e la rivelazione autentica, incarna perfettamente quella fede nel cinema che i Coen chiedono ai loro spettatori di avere…solamente per farsene splendidamente beffe un’ultima volta. Perché bisogna credere, ma con (ir)responsabile autoironia.
Eugenio D. | Michele B. | ||
7 1/2 | 7 1/2 |
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