’71: la recensione
Presentato in concorso al Festival di Berlino nel 2014, e uscito nelle sale italiane, in poche copie, lo scorso 9 luglio, ’71 segna l’esordio nel lungometraggio cinematografico del regista franco-algerino, ma britannico d’adozione, Yann Demange, già distintosi con la serie televisiva Top Boy. È la storia di un giovane soldato inglese, Gary Hook, assegnato a Belfast nel momento storico in cui la guerra civile in Irlanda del Nord raggiunge il suo picco di violenza, il quale, dopo essere stato abbandonato per sbaglio dalla sua stessa unità nel mezzo di una rivolta popolare, scopre sulla propria pelle ciò che si nasconde dietro a quella che sembrava una semplice missione di contenimento a due passi da casa.
Demange sceglie non a caso il punto di vista di un personaggio ingenuo e inesperto, in cui è facile identificarsi, per distruggerne del tutto le certezze, gettandolo, assieme allo spettatore, nella mischia di una città infernale, dove la violenza politica insanguina le strade e non risparmia gli innocenti, mentre i capi delle varie fazioni sembrano interessati soltanto al risultato, senza badare al mezzo usato. Non ci sono né buoni né cattivi, in questa guerra senza freni e figlia di un odio atavico, solo opposti fanatismi che si scontrano, fagocitando anche i minorenni, a cui viene insegnato fin da piccoli a uccidere il nemico con le armi da fuoco, negando loro ogni altro genere di maturazione. Uno scenario che potrebbe essere applicato anche a molti altri conflitti sparsi nel mondo e nella storia, in cui anche quella che dovrebbe essere la forza di peacekeeping partecipa alla violenza ed è la prima a fomentarla, per creare nuovi equilibri più consoni ai propri interessi politici e militari.
La messinscena di Demange riproduce perfettamente la disperazione e il disorientamento del protagonista, seguendolo dall’addestramento – nel quale viene ripetuto più volte il valore della squadra e dell’aiuto reciproco – alla guerra, in cui, ritrovatosi completamente solo, cerca di sopravvivere con ogni mezzo, fino a un epilogo che cancella del tutto ogni rimasuglio di ideali come l’onore e la patria. Almeno due sequenze – quella della rivolta in strada, nella quale emerge la debolezza strategica delle giovani reclute – e tutta la caccia all’uomo dell’ultima parte – memore della tradizione del thriller politico britannico a partire da Fuggiasco di Carol Reed, in cui però la preda era un militante dell’IRA – rimangono impresse per il crescendo di tensione e angoscia che non sfocia mai nella spettacolarizzazione della violenza, né tantomeno nella retorica. L’ottima interpretazione di Jack O’Connell (star in ascesa proveniente da Skins), faccia pulita di una guerra sporca, perfetto nel sottolineare tutta la fragilità del personaggio di Gary e ben assecondato da un cast senza nomi di richiamo – in cui spiccano Richard Dormer nel ruolo di un medico e Sean Harris in quello di un ufficiale infiltrato – contribuisce a fare di questo film un piccolo gioiello di realismo e forza drammatica, senz’altro meritevole di una distribuzione migliore.
Davide V. | ||
7 1/2 |
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