Hungry Hearts: la recensione
Dopo l’interessante e riuscito La solitudine dei numeri primi, Saverio Costanzo fa decisamente un bel passo indietro con la sua ultima fatica Hungry Hearts, presentato in concorso all’ultimo festival di Venezia, dove si è portato a casa le due Coppe Volpi grazie alla coppia di protagonisti: l’intensa Alba Rorhwacher e il monocorde Adam Driver.
Il film si pone con la fatica precedente in una linea di continuità tematica – la famiglia e i rapporti più stretti come covo di ossessioni e di malesseri vari, letti con evidenti riferimenti ai topoi horror – e stilistica, ma fallisce proprio dove La solitudine dei numeri primi aveva convinto maggiormente, cioè nella capacità di creare “un discorso” e di trasmettere sensazioni attraverso uno stile fantasioso e poco italiano, accentuandone semai il difetto di una struttura non particolarmente solida. Hungry Hearts appare così un film pretenzioso nella sua continua ricerca di inquadrature e scelte stilistiche stravaganti e non convenzionali, vittima di una perenne stilizzazione che non diventa mai un discorso altro e che dimostra di non avere sostanza, risultando presto fine a sé stessa ai danni di una tematica scottante; inoltre, certamente al di là della buonafede del regista, il film appare pure un po’ ricattatorio e arrogante, come se Costanzo volesse continuamente mettere di fronte lo spettatore al fatto di essere un grande regista affrontando un tema spinoso con continue inquadrature particolari. Così, però, non solo realizza un film da un lato emotivamente freddo, che non inquieta, né mette ansia, né trasmette altre sensazioni di sorta, ma che impedisce anche qualsiasi rielaborazione della tematica: è tutto una continua dimostrazione di originalità stilistica nel corso della narrazione sempre più gratuita e vuota.
Il film è esaltato comunque da buona parte della critica proprio perché stilisticamente originale e poco italiano nelle tematiche come nello stile: non bisogna però essere sostenitori della piattezza e della banalità stilistica per sostenere che se dalla fantasia e dalla ricerca stilistica non nasce un discorso ulteriore e non si trasmette null’altro, queste diventano loro stesse esempi senza sostanza di banalità cinematografica, della peggior spese perché pure pretenziosa. Per quanto riguarda la non italianità dell’opera, banalmente, se un film girato in maniera più internazionale è poco riuscito, rimane poco riuscito anche se girato in maniera internazionale, e se, per difendere il film, si sostiene esclusivamente la pregnanza della tematica, allora si rischia di cadere proprio in quel contenutismo che tanto male ha fatto al nostro cinema.
In fin dei conti, in Hungry Hearts mancano del tutto il rapporto e la dipendenza reciproca fondamentali per un film: quello tra stile, contenuto e narrazione.
Edoardo P. | Davide V. | Sara M. | Sara S. | ||
4 | 7 | 7 1/2 | 8 |
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