Caos è ordine non decifrato, recita l’epigrafe di Enemy. E tanto c’è da decifrare nello psico-thriller di Denis Villeneuve, che nella nebbia ocra di Toronto ambienta un’enigmatica vicenda dai contorni sfumati, adattando il romanzo di Josè Saramago L’uomo duplicato: senza duplicarlo, adattandolo con originale vigoria visiva. Il professore di storia Adam Bell (Jake Gyllenhaal), un po’ tetro e inamidato, scopre per caso l’esistenza di un sosia perfetto: è l’attorucolo Anthony St.Claire, atletico centauro con gli occhiali da sole. Se ne ossessiona, lo contatta: le loro vite si avviluppano, donne comprese (Mélanie Laurent e Sarah Gadon), dentro qualcosa di più grande, poco rassicurante e vagamente orwelliano.

LOST OBSESSIONS A TORONTO – “Un De Palma rivisto da Lynch e mutato in Cronenberg”, si direbbe buttando là una sintesi critica fulminante: ma poi, perché? Villeneuve ha uno stile solido, personale, da apprezzare di là del facile indovina-chi d’echi e richiami. Similmente, nemica di una corretta lettura di Enemy sarebbe la mera dissezione tecnica del film, tentazione a cui s’inclina proprio per la compiutezza di ogni elemento costitutivo: la fotografia che vien fuori dalle scene più tenebrose con soffocante slancio dorato, lo stesso con cui s’insiste sulle panoramiche della città come avvolta da un malato umore color sabbia; un montaggio addensante, che agglutina passaggi narrativi con pochi cuts e allo stesso tempo inocula una serpeggiante ambiguità; lo score musicale del duo Bensi – Jurriaans, intriso di scoramento, tutto grattar di violoncelli e angoscianti fraseggi sghembi.

Il tutto, maggiore della somma delle parti, per appena 90 minuti scarsi, da vedere e rivedere, non solo per l’effetto ipnotico del film, un mesmerizzante vaneggiamento che va ben oltre le ansie del doppelganger movie; ma anche per riassettare a incastro i pezzi di una storia ricca di significati metaforici. Come la dissezione, anche la dissertazione nuocerebbe a un primo approccio con Enemy, ossia: ritessere la ragnatela di possibili interpretazioni, specie del terrificante finale, è un esercizio a cui è positivo che la pellicola stimoli, ma non indispensabile per cogliere la terribilità di questo abisso cinematografico.

LA FATTORIA DEI SIGNIFICATI Enemy, di fatto, può essere variamente letto come una metafora dei regimi totalitari, su cui il protagonista tiene le proprie prolusioni; il travaglio interiore d’un personaggio vittima delle proprie pulsioni animalesche (vedasi l’agghiacciante prologo nel night club); ancora, una deformante visione di una “dittatura” del sesso femminile (tra madri, donne gravide o mutanti). Ogni lettura è viscosa, può funzionare, ma suonerebbe tanto da (appassionante) complotto critico, che questa sede non consente. Qui non resta che ribadire la carica trasfigurante del cinema di Villeneuve (come già in Prisoners), ben assecondata dal seme di follia di Gyllenhaal, pronto a diventare prigioniero dello snervante esercizio dell’incubo.

Antonio M.
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