My Name is Joe è considerato a ragione uno dei film più importanti di Ken Loach. Certamente è una delle sue opere più riuscite per come riesce a coinvolgere tutte le tematiche tipiche del suo cinema senza mai ripiegare nella retorica, come è accaduto in altri suoi film. In My Name is Joe Loach riduce al minimo, pur senza eliminarle, le parentesi ironiche per dare più forza all’aspetto tragico e disperato di questa storia, una disperazione che raramente ha raggiunto in altri suoi film e che trova il suo culmine in un finale amarissimo.

Scritto da Paul Laverty, con cui Loach aveva già lavorato per La canzone di Carla e che diventerà da questo momento in poi lo sceneggiatore prediletto dal regista britannico, My Name is Joe ha trama e ambientazione tipiche del cinema di Loach: Joe abita nella periferia di Glasgow, è un ex alcolizzato che cerca il riscatto personale tentando di conquistare una donna e aiutando Liam, un ragazzo disadattato che gioca nella squadra da lui allenata, a uscire da un brutto giro.

Al centro del film, ancora una volta, il disagio delle classi povere nelle periferie del Regno Unito raccontato attraverso un espediente narrativo anch’esso tipico di altri film di Loach (La parte degli angeli, Il mio amico Eric) e cioè la presenza centrale di due figure maschili, una generalmente di età maggiore che si prende cura della figura più giovane, una sorta di padre putativo – quello vero in Loach non c’è quasi mai – rappresentato in questo caso da Joe, l’ultima possibilità di salvezza per il giovane Liam.

Al film non manca, come si diceva in precedenza, qualche breve parentesi ironica: tra le scene cult, non si può non menzionare la partita di calcio in un campetto di periferia nella quale i giocatori, allenati da Joe, si presentano con nuove magliette della nazionale brasiliana comprate grazie a un furto commesso poco prima (uno dei giocatori indossa persino la maglia di Pelè).

Ciò che eleva My Name is Joe a perla della cinematografia del regista è il forte elemento drammatico che si eleva a tragedia grazie anche all’interpretazione titanica di Peter Mullan, premiato giustamente al Festival di Cannes, supportato degnamente dal resto del cast: con l’eccezione di David McKay, nel ruolo di Liam, tutti i membri della squadra di calcio sono attori non professionisti, nella realtà residenti locali con un passato burrascoso alle spalle.

Sullo sfondo emerge il rapporto di amore-odio che Loach ha da sempre con la madrepatria, un grande paese che però dimentica alcuni suoi figli e spesso si tratta di quelli più deboli. Un conflitto interiore lacerante che affligge anche molti dei dimenticati raccontati da Loach e che emerge ironicamente anche nella scena della partita, allorché i giocatori non vestono la maglia né della Scozia né, come è ovvio, quella dell’Inghilterra, ma portano con orgoglio quelle della Germania (prima) e del Brasile (poi).

Michele B.Chiara C.Edoardo P.
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