Il primato del cinema coreano oggi
Una provocazione o un esempio da cui ripartire?
Quella coreana è l’industria cinematografica più importante e vitale dell’Asia orientale.
Un’esagerazione? Può darsi, ma ci sono anche degli elementi che sembrerebbero avvalorare questa tesi. Dopo un ventennio turbolento, a metà degli anni ’90 il governo coreano ha investito sul proprio cinema, incentivandolo con quote di mercato e detassazioni. Queste politiche hanno permesso l’esordio di una generazione di registi appartenenti a quella “Post New Wave” che ha poi conquistato il mondo: Kim Ki-duk, Park Chan-wook, Hong Sang-soo, Bong Joon-ho, Kim Jee-woon, Im Sang-soo, sono solo i nomi più blasonati di una generazione che è stata in grado di proporre un cinema estremamente personale e di rielaborare al tempo stesso svariati generi in maniera originale, producendo capolavori mainstream come Old Boy e The Host. Logiche produttive intelligenti hanno portato il cinema coreano a conquistare nel 2013 ben il 60% del box office nazionale e a staccare, da solo, 127 milioni di biglietti (in Italia il computo complessivo è stato tra i 91 e i 94, nonostante una popolazione più numerosa) con una linea del grafico che continua a salire.
L’industria cinematografica coreana ha raggiunto livelli produttivi così alti che i suoi film (insieme alla musica pop e ai drama) sono i più esportati in Asia, forse con il solo Giappone a contendergli il primato. La Corea però ha superato anche i confini continentali: era dai tempi di John Woo e Tsui Hark che non c’erano autori asiatici in grado di fare il grande salto verso gli studios hollywoodiani, ma nel giro di due anni ben tre registi coreani hanno girato film oltreoceano: si tratta di Park Chan-wook con Stoker, Kim Jee-woon con The Last Stand e Bong Joon-ho con l’ambizioso Snowpiercer, prodotto con soldi coreani ma con cast e crew internazionali.
In Italia, per farsi un’idea della salute del cinema coreano, basta fare un salto a Udine durante il Far East o a Firenze in occasione del Korea Film Fest, e gustare con i propri occhi brillanti commedie romantiche, tesissimi thriller e adrenalinici action, per un pacchetto che è spesso il più qualitativamente omogeneo tra le cinematografie asiatiche. Nel corso di nemmeno un ventennio si sono infatti create maestranze molto solide che hanno permesso miracoli come The Attorney, vincitore all’ultimo Far East. Si tratta di un classico drammone di impegno civile, valorizzato dalla prova di un gigante come Song Kang-ho e da una confezione impeccabile, in grado di incollare alla poltrona e far commuovere, nonostante si avvalga di dinamiche convenzionali. La cosa più incredibile però è che il regista Yang Woo-seok fosse alla prima prova dietro la macchina da presa, un esordio impossibile anche solo da immaginare in Italia.
Il segreto del successo forse sta nel fatto che il cinema in Corea riveste ancora una funzione importante nel panorama culturale del paese, offrendo continue occasioni per confronti ai quali partecipano tutte le fasce demografiche della popolazione. Non esiste una ricetta da prescrivere a tutti i paesi, ma se si ripartisse da qui forse anche il cinema italiano ne gioverebbe.