Io sto con un sogno, sembrano aver voluto dire Gabriele Del Grande, Antonio Augugliaro e Khaled Soliman al Nassi: quello di filmare una benigna stangata all’Europa, riprendendo in tempo reale il viaggio di cinque siriani e palestinesi da Milano alla Svezia, che eludono controlli e leggi con la fantasiosa copertura di un finto corteo matrimoniale. Parte dal basso, il documentario presentato nella sezione Orizzonti a Venezia 71, finanziato da una campagna online che ha raccolto 100.000 euro in due mesi; si snoda in orizzontale, tra autostrade, vagoni, sentieri e montagnole; vuol arrivare in alto, nell’Europa Settentrionale, sul confine d’un orizzonte di speranza, lontano dalla pazza foga della guerra, in barba ai garbugli di leggi ostili o poco inclini all’accoglienza. Così è stato, ipso facto: è cronaca, dal 14 al 18 novembre 2013. Ed ora è cinema sopravvissuto.

Un giornalista d’assalto, un regista-montatore ed un poeta siriano, dunque, al timone di un’odissea mitteleuropea, tra Marsiglia, Bochum, Copenaghen e Stoccolma – ma diciamolo subito, per non magnificare oltre, messa avanti tutta la simpatia per l’impresa, un road documentary che impressiona più conoscendo i presupposti che vedendone su schermo gli esiti: l’odissea è evocata, ché le autorità sono docili – i villain, a ben vedere, nella realtà, sono al più i soliti invisibili burocrati; nessun vero pericolo viene corso – salvo quelli evocati dai ricordi dei protagonisti; ad emozionare non sono gli sviluppi della traversata, tutto sommato liscia, quanto il viaggio di dentro, che una ruga, una lacrima, una smorfia di tensione fanno riaffiorare, specie quando ai protagonisti spetta raccontare di quei corpi mai più riaffiorati durante la prima traversata del Mediterraneo.

Ecco, dunque, che da un lato la cornice esistenziale – vera, verissima, credibile – conta anche più della forma e dei contenuti; dall’altro, di conseguenza, lo spettatore insaziabile, avvezzo alla fiction anche nel cinema verità, deve di fatto contentarsi, con auto-imposizione etica, di non vedere nulla né di spettacolarizzato, né di realmente spettacolare, né di particolarmente ben girato o montato. Il documentario è a tratti persino verboso, snodato su superstrade orali – incredibile per un film sulla strada! Ma tant’è, se i tremila chilometri filarono così, in quei giorni novembrini, non resta che dire: è la realtà, bellezza. O meglio: è la bellezza della realtà.

Di là dei contachilometri, infatti, Io sto con la sposa è un racconto d’ansie, di attese, di ricordi, di tracce: un’odissea nello spazio interiore, che al più si fa fisica per la vicinanza, materiale per la presenza, brutale per i relitti della memoria o per i graffiti di chi ha già battuto queste strade, lasciando su pareti palinsesto un esorcismo personale scarabocchiato in un rifugio improvvisato. Al bando le avventure: le parole – anche rappate, come nel caso del giovane Manar – cercano di comunicare, con dura tenerezza, perché si sia diventati “banditi” d’una fiaba, giusti disobbedienti. Anche il cinema, così, è graffito: racconta, graffia, racconta i graffi. Tremila di questi confini superati, anche solo dallo sguardo.

Antonio M.
7