Detour. The Stone River: la recensione
Vincitore di un premio collaterale per il miglior documentario al Festival di Roma e del Globo d’oro della stampa estera come miglior documentario, The Stone River di Giovanni Donfrancesco viene presentato questa settimana in concorso al Detour Film Festival. Racconta la vita della comunità di Barre, cittadina del Vermont famosa sin dalla fine dell’800 per le sue grandi cave di granito. Proprio qui, all’inizio del secolo scorso arrivarono migliaia di lavoratori europei specializzati nel taglio della pietra, attratti dalle possibilità lavorative di questo territorio. The Stone River raccoglie le interviste rilasciate da alcuni di loro verso la fine degli anni ’30 e lette dagli abitanti di oggi, ritratti dal regista in momenti di vita quotidiana.
Il film è supportato da un bel lavoro di ricerca documentaria: le interviste d’epoca sono molto interessanti, a tratti toccanti senza mai cadere nel sentimentale. Si racconta di una vita dura, fatta di scelte difficili, emigrazione, lavoro pesante, malattie causate dalla polvere di granito respirata negli ambienti di lavoro. Qua e là dai testi emergono frasi anche illuminanti come quella di un lavoratore la cui caratteristica, secondo il parere degli amici, era quella di ridere spesso, dando sempre l’impressione di divertirsi. “Non hanno capito che quanto peggio ci si sente dentro, più si ride fuori”, rivela l’uomo. D’altronde Barre era un posto difficile in cui vivere, non solo per la durezza del lavoro: “un bel posto per venirci a morire”, scrive un protagonista di quegli anni, “ma non per viverci”. A quanto pare gli abitanti dell’epoca bevevano molto: “chi fa un lavoro pericoloso, beve sempre parecchio”, scriveva uno degli intervistati. L’alcol forse aiutava anche ad addormentarsi, se è vero che gli uomini di Barre andavano a dormire tardi per allontanare il momento del sonno e della malinconia: perché a Barre “dormire è un po’ morire”.
Dal punto di vista estetico il film di Donfrancesco è estremamente curato, a cominciare da una fotografia (dello stesso regista) dai toni scuri e contrastati, con inquadrature che si soffermano sullo spettacolo naturale delle rocce granitiche e sui volti stanchi e carichi di memoria degli abitanti di Barre. Il montaggio è volutamente rallentato, con inquadrature lunghe (bellissime quelle nel cimitero) supportate da dolci movimenti di macchina. Anche la musica, per lo più affidata a suggestivi assoli di chitarra acustica, contribuisce a donare al film il ritmo ciondolante e malinconico tipico della memoria, che è il cuore pulsante di The Stone River. Ciò che più fa male nella polvere di granito di Barre, Vermont, non è quello che si vede, ma quello che non si vede eppure ti resta dentro, afferma l’uomo del cimitero. In fondo è ciò che accade anche nei ricordi, ciò che accade anche al cinema.
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