Con quasi trenta milioni guadagnati in meno di due settimane, Checco Zalone è entrato nello stantio panorama degli incassi del cinema italiano come un arcigno difensore entra in tackle scivolato. Successo sicuramente previsto, anche se forse non in queste proporzioni: il record di 60 milioni d’incasso del precedente Che bella giornata sembra infatti a portata di mano. Inoltre, il comico, coadiuvato nella scrittura e sostenuto in cabina di regia dal fido Gennaro Nunziante, sembra aver ottenuto anche un discreto successo di critica, già, in parte, intravisto per il precedente film.

Effettivamente, Sole a catinelle raggiunge con tranquillità il suo obiettivo principale: far ridere – e non poco -, cosa non tanto ovvia vista la scarsità di gag e battute veramente valide in molte commedie e film comici italiani contemporanei. E lo fa inserendosi, forse unico nel panorama della nostra cinematografia degli ultimi anni, in una tradizione vecchia come il cinema italiano. Senza volere fare paragoni e affiancamenti ancora prematuri e al momento ancora eccessivi, è certo però che il comico pugliese si pone come principale (e, a oggi, unico) erede di quei comici “puri” che hanno creato sul grande schermo una maschera rielaborata e rinnovata e allo stesso tempo strettamente legata alle loro esperienze precedenti, vuoi fossero del varietà, del teatro, del cabaret o della televisione: i nomi sono quelli altisonanti di personaggi anche diversissimi tra loro (da Totò a Sordi, dai De Filippo a Pozzetto, dalla Valeri a Fabrizi a Villaggio), ma che hanno avuto in comune appunto la capacità di trasportare e ricreare in modo non banale – al netto dei singoli risultati a volte validi, a volte meno, della carriere di ciascuno di loro – caratteri e maschere, riuscendo anche a diventare, nei casi migliori, specchi tornasole dei contesti sociali e culturali. Inoltre, chi più chi meno, tutti questi hanno dovuto barcamenarsi tra il non colpire lo zoccolo duro del pubblico e far deflagrare il potenziale eversivo del comico, col risultato di una comicità dal potenziale a metà strada tra un’ironia più incisiva e cattiva e un’ironia più affettuosa, con la bilancia a seconda dei casi rivolta più verso il primo aspetto (Totò, Villaggio, Nichetti), altre più verso il secondo (Fabrizi, De Filippo, Sordi).

Nella cornice di una sceneggiatura certamente sgangherata e un po’ “buttata lì”, come era del resto lecito aspettarsi, ma comunque sufficiente per non trovarsi davanti a una serie di sketches slegati tra loro, Zalone gioca con l’ombra lunga di queste eredità pesanti all’orizzonte, e gioca anche affrontando “l’ostacolo” delle aspettative di quei fan e di quegli spettatori a cui basterebbe vedere la sua faccia per ridere, senza bisogno di tanti altri orpelli. Ci si poteva quindi tranquillamente accontentare, e il successo probabilmente sarebbe comunque piovuto copioso. La coppia Zalone-Nunziante cerca invece di volare un po’ più alto, offrendo una comicità intelligente e meno banale di quanto ci si poteva attendere.

Arrivando al punto dell’incisività e della carica ironica, si può notare come queste siano più o meno decise a seconda degli obiettivi presi di mira: è vero, come fatto notare, che il film colpisce un ampio raggio di personaggi, categorie e questioni diverse tra loro, ma è altrettanto vero che l’efficacia e la dose di cattiveria variano a seconda del bersaglio. A volte lo schiaffo arriva diretto, altre volte la mano rallenta all’ultimo per dare un semplice buffetto. A essere più schiaffeggiate categorie sociali, e la loro rappresentazione più diffusa, come l’alta finanza o l’alta borghesia pseudo intellettuale (con o senza pseudo) e snob, mentre c’è più indulgenza verso quella che possiamo definire la “pancia del paese”. Questa categoria, di cui del resto il protagonista appare come un evidente esponente e simbolo, è trattata con un’ironia più affettuosa, anche se non del tutto innocua, a metà strada tra indulgenza e critica. E forse era lecito aspettarsi da parte di Zalone un pizzico in più di cattiveria, una capacità maggiore e più continua di fare esplodere il detonatore del potenziale eversivo comico, che invece viene lasciato esplodere solo in determinate occasioni e viene spento un attimo prima dello scoppio in altre. Da questo punto di vista, tornando ai paragoni e ai riferimenti alti, Zalone ricorda, piuttosto che Totò, certi film soprattutto degli anni Settanta di e con Alberto Sordi, ambigui nella loro commistione di rappresentazione critica e indulgenza di fondo.

Sole a catinelle rimane comunque un caso raro nell’ultimo decennio di film comico italiano che fa ridere, e, pur – come visto – con le armi più o meno spuntate a seconda dell’obiettivo, che evita le derive buoniste e moraliste di molte italiche commedie di grande successo degli ultimi anni.

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Davide V.
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