Il romanticismo straziato di Blue Valentine di Derek Cianfrance, vien da dire, non è sufficiente a farne un film d’amore. Ma forse il break-up movie, specie in queste forme sofferte e intrise degli umori svaniti del sentimento giovane, rientra a suo modo nell’ampia e sfumata categoria delle love stories.  Col pregio, nel caso presente, di essere ad ogni modo fuori dalle definizioni generalizzanti: per l’identità autoriale, irripetibile, di una regia che sutura i piani temporali come fossero i margini di una ferita e per i colori della fotografia a mo’ d’intonazioni emotive; per l’individualità umanissima di due interpreti maiuscoli, Michelle Williams e Ryan Gosling, che mettono peraltro a frutto il training pre-produzione, durante il quale, per immedesimarsi nei rispettivi personaggi (Cindy e Dean) prima che fosse battuto il ciak, hanno convissuto nella stessa casa e fatto la spesa in paese proprio come un’infermiera ed un imbianchino.

C’ERAVAMO TANTO AMATI – Lui, Dean, dorme sul divano e porta perennemente gli occhiali scuri, disfatto da Bacco e tabacco, ma ancora innamorato della sua distante Venere. Più che dissoluto, è un uomo in dissolvenza: un talento sprecato per orizzonti troppo angusti, nei quali, però, esercita con tenerezza e devozione il magistero paterno con la piccola Frankie, che stravede per lui. Lei, Cindy, precocemente incinta (di Dean?), in un’età in cui sognare era ancora lecito, è una moglie sull’orlo di una crisi di nervi ed una lavoratrice insoddisfatta. Un potenziale pittore che fa l’imbianchino, una potenziale dottoressa che fa l’infermiera: a volte la vita non va come si vorrebbe. Specie quella di coppia.

Dal 14 febbraio 2013 nelle sale italiane, Blue Valentine è un film tormentato nei contenuti quanto nella lavorazione. Derek Cianfrance lo scrive dal 1998, lo manipola, lo riscrive, lo propone, lo ri-propone a dispetto della porte in faccia. L’happy end – che non fa il paio con quello del film – è l’approdo del film al Sundance nel 2010 e poi a Cannes (nella sezione Un Certain Regard), e le nomination di prestigio a cavallo dell’anno successivo (dai Satellite Awards, ai Golden Globes, agli Oscar). Soprattutto, il finale felice di questa produzione si osserva in quel certo riguardo con cui ogni particolare appare dotato di senso e credibilità, curato con gestione sapiente ma senza la ridondanza dell’artato. Ché, anzi, il film sembra riesumare certo realismo di John Cassavetes (A Woman Under the Influence), con la capacità drammatica ed accostante di certo cinema francese, recente (il François Ozon di CinqueperDue) e non (Jacques Rivette su tutti, specie nei controcampi sospesi tra moglie e marito, con la voce del coniuge fuoricampo).

Tra i fattori espressivi più dilaceranti del film, non a caso, uno è stato non a caso valorizzato in fase di riscrittura: l’utilizzo insistito del flashback, per creare il doppio binario della storia d’amore incipiente, tutta rose, fiori, e serenate, e presente collassante, tutto spine, fede gettata nei rovi – è quello che fa Dean durante un litigio – e canzonette in stanze ad ore. È più di un asettico confronto tra piani temporali, teso ad inspessire le rughe di un sentimento invecchiato. È, piuttosto, un’autentica strategia di segni rovesciati, di amuleti senza effetto, di rituali all’incontrario: il cane felice che gioca con la famiglia, mostrato in videocassetta, viene ritrovato morto sul ciglio della strada (la sua sparizione è in apertura del film), così da mutare in  presagio; la canzone d’amore suonata da Dean con l’ukulele al cantuccio di una stradina, con lo spontaneo balletto di Cindy, diventa la colonna sonora sbiadita di uno stanco trascinarsi, quando i due accennano a ballarla nel motel; persino l’amplesso giovanile, tra il ludico e l’eccitato, è pari pari capovolto, con la scena di sesso tra Cindy e Dean maturi che trasfigura nella repulsion di uno stupro.

VAGINA E DINTORNI – Emblematico il tentato cunnilingus sotto la doccia di Dean: “come up”, le impone la moglie nuda, allontanando il non più riamato amante. La vagina di Michelle Williams è letteralmente il luogo dell’inviolabilità, il rifugio che resta a Cindy dopo l’organo un po’ più up, il cuore, è stato in qualche modo tradito. Il mancato aborto, con il dottore che infila la mano nell’utero e Cindy che cambia idea, è il primo sintomo di u-turn, di uno spazio intmo che comincia a rigettare il maschio: “ok, I’m sorry and I will stop”, dice il dottore. E finisce fuori campo: una figura, un’anticipazione della soluzione a cui viene costretto Dean.

La coppia, poi, scoppia per l’impossibile, perduto cuor leggero, che Dean/Ryan Gosling vorrebbe rianimare col massaggio cardiaco della nostalgia: ma il suo romanticismo è inefficace, tutto quanto era red passion si è fatto blue valentine, depresso e deprimente. Significativa l’algida, litigiosa notte passata nella camera del motel – un’idea di Dean – per riscaldare un rapporto di freddezza obitoriale: la stanza è immersa in un’irreale luce blu, di una glacialità impossibile da sciogliere; il nome del nido d’amore è Future Room, appalesando cosa sia diventato il “futuro” romantico sognato dai due, nello squallore del kitsch d’un letto girevole con finti comandi di un’astronave; la prima cosa che cerca Cindy è un “fridge”, per prepararsi un drink, lei che ormai pare anestetizzata nella pulsione affettiva e rinchiusa nella propria frigidità. Ma soprattutto, l’esordio scherzoso di Dean nella camera è: “Whoa! We’re inside a robot vagina!”. Appunto: lui è quello che sa ancora stupirsi, anche se debolmente, lei è la vagina di ferro. E tra i due non c’è corto-circuito: beninteso – ed il kind of blue della stanza scelta da Dean lo attesta – anche per colpa di lui, per un affetto sincero ma incapace di costruire un dream che vada al di là di una suonata d’ukulele al neon.

I’M HOT, BUT WHEN I’M NOT… – Questo trapasso freddo/caldo, si sarà inteso, si nutre dell’intelligente enfasi visiva della fotografia (Andrij Parekh, ma lo stesso Cianfrance ha esperienze nel campo), a tratti persino maniacale nell’insistere sulla semiotica del disgelo impossibile. Non solo le scene in flashback sono immerse in un tepore di luci: il trapasso all’assideramento del love-dream, con l’avanzata del ricordo, produce immagini sempre più vicine a quelle dell’inverno della coppia. L’autunno, se vogliamo, è la scena del matrimonio – rigorosamente non in chiesa, senza cerimonia: la cravatta rossa sulla camicia azzurrina di Dean è l’ultima superficie del calore, prossima a cristallizzarsi nel ricordo di uno scatto fotografico. Le lacrime di Cindy, sposa col pancione, sanno già di nevrastenia.

Blue Valentine di Derek Cianfrance è dunque la storia di una deflagrazione silenziosa, come nei beffardi fireworks dei titoli di coda: un amore rivoltato, un idillio diventato realtà rivoltante. Il sogno di Dean e Cindy, fatto dell’impalpabilità dei sogni cinematografici, implode all’interno del cinema stesso diventando segno squassante, perché contraddistinto dal rovesciamento traumatico del senso rispetto all’identità del significante: lo You and Me, non più us, della canzone dei Penny Quarters del soundtrack; un polo caldo ed uno freddo, come nella fotografia; un passato ed un futuro che si divaricano, come nel montaggio.“Maybe I’ve seen too many movies, you know, love at first sight”, dice DeanRyan Gosling: ma non è solo nella realtà che diventa necessario to move on, non tutti i movies hanno l’happy end.

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Alice C.Barbara N.Chiara C.Edoardo P.Giacomo B.Giusy P.
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