The Impossible: la recensione
True story, recita una didascalia nel prologo di The Impossible di Juan Antonio Bayona. Dissolvenza, poi di nuovo: true story. Un ossimoro e un’iterazione provocatori, rispetto al titolo: o soltanto rispettosi dell’enormità della micro-vicenda che una famiglia spagnola (dal biondo aspetto anglosassone nel film, per esigenze di “internazionalizzazione”del prodotto) visse nel contesto dello tsunami del 2004. Una fiction né edulcorata, né scolasticamente edificante, né, tantomeno, un documentario: un racconto toccante entro una cornice credibile, ma di torpida routine della sofferenza.
Henry (Ewan McGregor) e Maria (Naomi Watts) lasciano il Giappone, dove lui lavora, per concedersi insieme ai tre figli una vacanza natalizia in Thailandia. Appena il tempo di avvistare qualche “nube” economica sulla famiglia, vista l’incertezza del lavoro di lui, che a bordo piscina la terra trema e un’onda gigante completa l’opera catastrofica. Moriranno trecentomila persone – true story. Maria si trae in salvo col figlio maggiore Lucas (Tom Holland), Henry viene travolto mentre stringe a sé gli altri due pargoli. Tra fango, ospedali e rifugi improvvisati, ha luogo l’odissea del ricongiungimento.
Osservare in The Impossible certi tratti d’inevitabile estetica da disaster movie, un clima quasi da post-apocalisse, con i sopravvissuti in romitaggio stile The Road di John Hillcoat, non fa altro che rimarcare da un lato l’immanità della tragedia nella propria effettività storica, dall’altro le insidie di un progetto cinematografico che poteva facilmente ricadere, con esiti davvero disastrosi, nel reality da reportage, così come nell’epica scialacquata della saga familiare. Juan Antonio Bayona, che conoscevamo per lo più per l’horror The Orphanage, riesce a schivare entrambi i rischi, raggiungendo un proficuo equilibrio: sia pure, diciamolo subito, senza significative zampate, e con qualche plausibile ruffianeria.
Proprio come in The Orphanage, il regista punta sui giovani: sicché tra l’ottima madre sofferente interpretata da Naomi Watts (candidata agli Oscar) e un Ewan McGregor in versione paterna, invero, piuttosto anonima, fa tutt’uno col senso del film il rilievo assegnato all’adolescente Lucas. Il suo necessario improvvisarsi “forte”, piuttosto che esserlo; le sue fragilità mascherate tra istinto di sopravvivenza e sussiego verso la madre; la sua servizievole ed operosa vigilanza da “ometto” tra lettighe e feriti, emozionata ed attanagliata dall’apprensione non appena ci siano novità sullo stato di salute della madre: tutto questo ne fa il personaggio chiave, nel contesto di un’umanità affrescata, senza sovradimensionamenti iperbolici, nella lotta contro la propria finitezza, nel superamento dei propri limiti, nell’auto-nutrimento della speranza. Il lungo decentramento della Watts appare in questo senso strategico: l’angoscia viene colta “in situazione”, in un fieri che rivela tutta la spinosità psicologica di un assestamento ancora labile.
L’interpretazione della Watts, poi, è tanto più pregevole considerando i larghi tratti in cui il suo personaggio versa nella semi-immobilità fisica. Quel letto d’ospedale dà la stura ad un dolore raccolto, coraggioso, pregno di dignità e non incline ai patetismi. Di contro, il formicolio delle strade e la recherche disperata oppongono a quel dramma misurato il dinamismo di un’avventura sia fisica, entro scenari ben ricostruiti, che morale.
E a proposito di scenari, con Hereafter di Clint Eastwood l’effetto tsunami – poi lasciato cadere da una sceneggiatura dirottata su altri lidi – era stato ricreato nella propria impetuosità visiva, ma con una patinatura digitale molto smaccata. In The Impossible, con acqua e terra a vagonate e macerie vere, l’onda, che sommerge lo schermo e pare straripare in platea, consegue un effetto di pertinente realismo: il preludio materiale alle traversie del clan.
Coraggiosa negli intenti, diligente nell’esecuzione ma piuttosto anonima nel risultato, The Impossible è un’opera non necessaria su di un ricordo necessario: è, cioè, un film gestito entro argini creativi ben precisi, quelli della true story e delle sue implicazioni, le cui ondate emotive s’incanalano tra i cavalloni della storia reale e la routine hollywoodiana meno originale, ma più catchy.
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