The Company you keep (La regola del silenzio) è un film diretto e interpretato da Robert Redford e presentato Fuori Concorso a Venezia 69.

In questo thriller dai risvolti politici e spionistici, il divo settantacinquenne impersona un ex membro di un movimento estremista dedito alla lotta armata, ora affermato avvocato e padre amorevole, che vede il passato riemergere prepotentemente dopo l’arresto di una ex compagna di lotta, latitante da trent’anni, con l’accusa di omicidio. Un giovane e ambizioso reporter d’assalto (Shia LaBeouf) prende a cuore il caso e inizia a indagare in proprio.

Al suo nono film dietro la macchina da presa, Redford sceglie come punto di partenza un capitolo poco noto della storia americana recente, quello in cui la protesta contro l’imperialismo e il capitalismo si fece violenta, con le azioni dell’organizzazione di estrema sinistra Weather Underground: in particolare, la vicenda si riferisce a un episodio del 1981, una rapina in banca finita nel sangue.

Nell’affrontare la materia in esame, il cineasta, da sempre schierato con l’ala più liberal dei Democratici, sceglie il punto di vista di chi ha vissuto in prima persona quell’epoca di lotte, interpretando lui stesso l’ex militante costretto a fare i conti con un passato fatto di scelte estreme, e alla prova dei tempi sbagliate, non nello scopo ma nel metodo. Il cuore di Redford batte a sinistra, lo si vede dal rispetto con cui tratta il suo personaggio e quelli dei suoi ex compagni (che hanno il volto segnato dal tempo di numerose icone della New Hollywood, da Susan Sarandon a Julie Christie, da Nick Nolte a Sam Elliott), ma rimane sempre un buon americano, pronto a tessere le lodi della famiglia e della paternità come unica strada possibile verso la redenzione.

Molto classico nella regia, il film vive di buoni momenti, come il dialogo fra la Sarandon (straordinaria, anche se in scena soltanto per pochi minuti) e Shia Labeouf e quello fra Redford e Richard Jenkins (nel ruolo di un altro ex membro del gruppo, diventato professore), che danno vita a riflessioni interessanti sul rapporto fra un passato fatto di lotte estreme e un presente che vive di sola immagine, fra vecchi militanti nostalgici e irriducibili e giovani individualisti interessati ad aggiornare il profilo Facebook. Peccato che le nobili intenzioni finiscano col perdersi per strada a causa del ritmo un po’ fiacco della sceneggiatura, e di una parte finale che rischia di scivolare nella banalità buonista.

Il prestigioso cast, per quanto riunisca un numero impressionante di grandi nomi, non garantisce in tutti i casi l’eccellenza: se uno dei più in forma è il corpulento Brendan Gleeson (nei panni di un poliziotto in pensione), lo stesso Redford inizia a mostrare segni di stanchezza nell’infondere al protagonista il carisma necessario, e sembra più adatto a fare il nonno che il papà.

Niente di trascendentale, dunque, se non un onesto spettacolo cinematografico progressista, di discreta qualità ma non di certo il miglior risultato da regista del glorioso Sundance Kid.

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Irina M.
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