Klitschko è un film documentario diretto dal tedesco Sebastian Dehnhart, incentrato sulla vita dei fratelli pugili Vitali e Wladimir Klitschko: dall’infanzia in Ucraina, sotto la dominazione sovietica, agli esordi come dilettanti, fino al successo da professionisti in Germania, divenendo infine – caso mai verificatosi nella storia della boxe – l’unica coppia di fratelli a detenere contemporaneamente un titolo mondiale dei pesi massimi.

Il documentario sul pugilato è un sottogenere che, al suo meglio, può interessare un pubblico piuttosto vasto ed emozionare anche i profani della nobile arte, come insegna l’intramontabile Quando eravamo re, titolo del 1996 diretto da Leon Gast e incentrato sul trionfale ritorno sul ring di Muhammad Ali; nel caso di Klitschko, presentato al Festival di Berlino nel 2011 e uscito nelle sale l’anno dopo, siamo di fronte a un prodotto magari non altrettanto trascinante sul piano emotivo, ma comunque di livello più che buono.

Nel delineare la parabola sportiva e umana dei due fratelli, protagonisti indiscussi del pugilato mondiale negli ultimi dieci anni, l’esperto documentarista Dehnhart predilige una messinscena sobria e realistica, agli antipodi dello sfarzo quasi hollywoodiano che caratterizza la boxe d’Oltreoceano, e parte da una vecchia pellicola in Super 8 girata da Vitali da ragazzo, per poi alternare rare sequenze di repertorio, riprese di allenamenti, spezzoni di combattimenti e interviste, oltre ai due protagonisti, a figure ad essi vicine, come familiari, allenatori, avversari.

Il ritratto che emerge dal documentario è quello di due moderni gladiatori dediti all’arte del combattimento, figli di una cultura tipicamente sovietica, basata sul rigore e sulla disciplina, tuttavia abbastanza versatili da cogliere le opportunità offerte loro dalla caduta del muro di Berlino, pur senza mai lasciarsi trascinare dal divismo e senza rinnegare i ferrei valori con cui furono cresciuti da una famiglia forte e presente. Con una sostanziale differenza: se Vitali appare fin dall’inizio un combattente nato, caparbio e granitico nel superare i numerosi infortuni che ne hanno funestato in parte la carriera e nel perseguire i propri ideali anche politici, Wladimir sembra, almeno in gioventù, più vulnerabile, meno sicuro di sé, un fratello minore iperprotetto: tuttavia, sembra suggerire il regista, non importa quante volte si va KO, l’importante è rialzarsi, e farlo con le proprie forze, e così è stato per il minore dei Klitschko, messo in ginocchio e poi riemerso da una forte depressione.

Dalla visione del documentario, molto valido dal punto di vista tecnico, preciso e puntuale nel trattare la materia in esame, emerge una concezione del pugilato lontanissima dalle baracconate à la Rocky Balboa, e basata su un confronto fisico e mentale – con sé stessi e con i propri limiti, prima che con l’avversario – di rara durezza e brutalità: particolarmente impressionanti le sequenze dello scontro fra Vitali e Lennox Lewis, che trasformò l’ucraino in una maschera di sangue, e la testimonianza di Lamon Brewster, storico avversario di Wladimir, sulle terribili conseguenze di un infortunio. Notevoli il racconto di Vitali riguardo alla proposta di contratto del manager Don King, il legame cavalleresco instaurato con Chris Byrd, che fu avversario di entrambi, e la sequenza finale di elogio alla fratellanza, sancito dall’anziana madre, da parte dei due Klitschko, che riprende in un’ottica costruttiva il legame sportivo-familiare alla base del film The Fighter e vede un ingrassato Lennox Lewis, ormai pressoché identico al pittoresco personaggio da lui interpretato nel film Johnny was, nel ruolo di una nemesi istrionica e alquanto cinematografica.

Ma è l’unica concessione allo spettacolo di un film asciutto e rigoroso, esattamente come i suoi protagonisti, che avrebbe meritato una circolazione meno limitata nei cinema italiani: è uscito infatti, quasi contemporaneamente, nelle sale del circuito The Space Cinema, in pochissime copie, e in DVD, in entrambi i casi in lingua originale con i sottotitoli.

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