ACAB, film diretto da Stefano Sollima, descrive la vita quotidiana di quattro celerini romani: Cobra (Pierfrancesco Favino), sotto accusa per il pestaggio di un ultrà; Negro (Filippo Nigro), che non vuole rassegnarsi alla separazione dalla moglie cubana; Mazinga (Marco Giallini), alle prese con un figlio adolescente simpatizzante di un gruppo antagonista di estrema destra; infine, la recluta Adriano Costantini, un ex coatto la cui madre rischia di perdere la casa. Quando uno di loro, durante uno scontro, rimane gravemente ferito, gli altri si daranno da fare per vendicarlo.

Accompagnato all’uscita da un mare di polemiche, soprattutto da parte delle forze dell’ordine, ACAB – acronimo che sta per All Cops Are Bastards, slogan anarchico emerso per la prima volta in Inghilterra negli anni Settanta – è uno dei film italiani più brutali e disturbanti dell’ultimo decennio, lontanissimo dalla raffigurazione edulcorata degli uomini in divisa blu proposta da fiction come La squadra e Distretto di polizia.

Stefano Sollima, figlio di quel Sergio che, negli anni Sessanta, diresse alcuni spaghetti western di buon livello, sembra avere messo a frutto l’esperienza televisiva maturata come regista della serie di Romanzo criminale, e nel trasporre l’omonimo libro-inchiesta di Carlo Bonini, evita i facili manicheismi che un simile soggetto avrebbe suggerito, mantenendosi in equilibrio fra denuncia civile e film d’azione, con un occhio al poliziesco americano contemporaneo à la Training Day.

Ambientato in una Roma che sembra Los Angeles, multietnica, caotica e minacciosa, dove dominano la violenza e la sopraffazione e covano focolai di razzismo e rivalsa sociale, ACAB mette a nudo la condizione esistenziale sul filo della legalità di una squadra di poliziotti pieni di frustrazioni, per i quali ciò che conta di più è la fratellanza, e il rispetto per i codici d’onore viene prima di quello per le norme scritte: uomini violenti e vendicativi, sui quali lo Stato scarica ogni responsabilità di mantenimento dell’ordine pubblico, mettendo continuamente a rischio le loro vite. Lo sguardo del regista si dimostra quanto mai ambiguo: se, da una parte, non teme di mostrare scene di violenza al limite della sopportabilità, tra feroci scontri allo stadio e spedizioni punitive, mettendo in risalto il lato ferino e l’innata aggressività dei protagonisti, dall’altra descrive con estrema cura il desolante background culturale e sociale, di stampo fascista, di questi ultimi, se non giustificandone le decisioni, almeno tentando di darne una spiegazione.

Il risultato è quello di creare un inevitabile senso di spiazzamento nello spettatore, che finisce per trovarsi a metà fra una posizione di condanna e una di immedesimazione, fra la facile indignazione morale e una scomoda pulsione catartica. I riferimenti di fondo ai principali eventi della storia poliziesca italiana degli ultimi dieci anni, dal massacro alla scuola Diaz agli omicidi di Filippo Raciti e Gabriele Sandri, fino allo stupro ed assassinio di Giovanna Reggiani, nei quali la polizia assunse alternativamente il ruolo di carnefice, vittima o spettatore inerte, non fanno che alimentare il senso di disagio di chi non sa da che parte schierarsi, e sono la cartina di tornasole di una società completamente schizofrenica, in cui il celerino è visto al tempo stesso come custode dell’ordine e nemico pubblico. Una visione cui si aggiunge una feroce critica alle istituzioni politiche, mostrate come ipocrite e carenti, che traspare da dialoghi pieni di furore, nella maggior parte memorabili, anche se, in certi casi, fin troppo espliciti nel declamare rabbia e rancore.

Ad incarnare i quattro protagonisti si ritrova un cast in ottima forma, in cui troneggia un Pierfrancesco Favino di straordinario carisma, nel ritratto di uno sbirro disposto a tutto pur di proteggere la fratellanza: un antieroe lucido e folle allo stesso tempo, in cui l’attore riversa istinti bestiali fuori dal comune, ma anche molta umanità. Bravi anche Filippo Nigro, nel ruolo di un agente con seri problemi familiari e del tutto incapace di controllare le proprie pulsioni distruttive, e Marco Giallini (il gangster Terribile in Romanzo criminale) in quello dell’agente più anziano, cosciente del proprio fallimento come genitore e di avere ormai oltrepassato il limite come poliziotto. Non male, infine, il giovane Domenico Diele nella parte della recluta alle prese con una realtà dura e brutale, che Cobra cerca di educare al nuovo stile di vita ma risulta l’unico ancora capace di indignarsi di fronte alla violenza che lo circonda.

Una colonna sonora ad effetto, in cui si alternano The White Stripes, The Clash e Joy Division, e la splendida fotografia notturna di Paolo Carnera completano il quadro di un’opera capace di dividere e far discutere, che non si schiera apertamente verso una tesi o l’altra ma si limita a mostrare i fatti, risultando, proprio per questo, molto più coraggiosa e interessante della media dei film analoghi.

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Chiara C.Edoardo P.
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