Il Dittatore: la recensione
Il dittatore è il terzo risultato del sodalizio tra il regista statunitense Larry Charles e il comico inglese Sacha Baron Cohen, sceneggiatore e protagonista, nonché vero e principale autore. Baron Cohen continua il suo irriverente viaggio, iniziato con Borat e proseguito con Bruno, tra le contraddizioni più profonde e radicate della cultura e della società americana. Come nei due film precedenti, anche questa volta è la rappresentazione di uno straniero che porta con sé stereotipi e caratteristiche non particolarmente gradite alla cultura yankee a creare il contatto che fa deflagrare lo scoppio della comicità satirica.
Il dittatore protagonista è Aladeen, barbuto Rais del piccolo stato canaglia di Wadija, ispirato a figure come Gheddafi, Saddam Hussein, Ahmadinejad e Assad. Aladeen vive in un’immensa ed elegante reggia in mezzo al deserto; per condannare a morte i suoi sottoposti è sufficiente che loro trovino la sorpresa nei cereali al suo posto, mentre alla Wii gioca all’attentato delle Olimpiadi di Monaco 1972; inoltre, per non essere da meno dei suoi colleghi tiranni, coltiva il sogno di possedere un’arma nucleare e diventare una minaccia atomica. Alle sue spalle trama il braccio destro Tamir, interpretato da Ben Kingsley: a New York, dove Aladeen avrebbe dovuto parlare davanti all’ONU, Tamir lo fa rapire e lo sostitisce con un sosia non particolarmente sveglio e brillante. Nel disegno del complotto, il sosia avrebbe dovuto firmare una costituzione liberale che apparentemente stabiliva l’avvento della democrazia in Wadija, ma che in realtà regalava lo sfruttamento del Paese alle grandi compagnie petrolifere e industriali. Aladeen, completamente sbarbato e perciò irriconoscibile, vaga per la metropoli, entrando in contatto con gli esuli del suo Paese, da lui stesso in passato condannati, e con una ragazza locale (Anna Faris) pacifista, vegetariana, radicale e femminista, proprietaria di un negozio gestito come una “comune” dove vigono le regole più assolute della democrazia.
Il dittatore mantiene intatto lo spirito di fondo, corrosivo e politicamente scorretto, dei lavori precedenti di Baron Cohen, ma si differenzia da questi per una costruzione narrativa più organica e tradizionale, e anche per uno stile registico meno volutamente amatoriale e un po’ più robusto: viene, cioè, limitato quell’effetto da “candid camera”, e diventa più sfumata quell’atmosfera da mockumentary che era la caratteristica più evidente degli altri due film. Questo non significa che quest’ultima fatica sia meno innovativa e sferzante: si evita, anzi ,quel sospetto di eccessiva programmaticità nel cercare le reazioni che, pur tra i numerosi momenti geniali, faceva capolino qua e là nelle opere precedenti indebolendo un po’ l’impatto di alcune scene.
Il dittatore può essere perciò considerato un punto di arrivo e di maturazione del percorso dell’irriverente comico inglese; anche perché il fatto che sia narrativamente e stilisticamente più tradizionale permette di giocare, a livello sia ironico che parodico, con quegli stessi schemi e canoni, in un stratificato e raffinato schema di riferimenti non solo politici e culturali, ma anche strettamente cinefili e stilistici. In effetti, Baron Cohen usa molte delle tipologie di comico a disposizione: dal demenziale, alla volgarità da teen-movie, alla comicità di parola, fino a quella a sfondo sessuale e scatologica, passando per l’umorismo tipico di cartoons come I Griffin, I Simpson e South Park, e aggiungendo lo scheletro della commedia sentimentale.
Così, forse più che nei film precedenti, Baron Cohen e Larry Charles sfornano un’opera complessa e “teorica”, oltre che segace, cattiva e sbeffeggiante, dove il politicamente scorretto non risparmia nessuno. Non mancano, naturalmente, pillole di efficace satira politica, anche con riferimenti che difficilmente si sentono altrove, come quello delle mani cinesi sul debito statunitense. Infine, cosa che non guasta mai, si corre il rischio di ridere parecchio.
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