Con J. Edgar, Clint Eastwood torna a far parlare di sé. Nel bene e nel male. Dopo il flop di Hereafter il grande vecchietto (81 anni) del cinema americano esce nelle sale con un biopic spionistico sul numero uno dell’ FBI John Edgar Hoover.

Direttore del Federal Bureau of Investigation per quasi mezzo secolo e otto presidenti Usa, Hoover è uomo tanto carismatico nel lavoro quanto impacciato nella vita privata. Cerca una compagna, per accontentare la madre-despota (la severa Judi Dench) con cui ha un rapporto morboso. La trova nella bella dattilografa Helen Gandy (una rigida e insipida Naomi Watts) ma qualcosa va storto. Lei, più devota alla professione che desiderosa di un marito, diventerà la sua segretaria personale mentre lui, finito in bianco, capirà di amare Clyde Tolson (un riuscito Armie Hammer nel suo personaggio fedele e composto), amico fraterno e fedele braccio destro all’ FBI.

Costretto a reprimere un’omosessualità latente, Edgar immolerà anima e corpo alla lotta contro il crimine perseguendo un’unica ragione di vita: difendere l’America dal nemico, sia esso bolscevico, mafioso o Martin Luther King in persona. Tra intrighi internazionali, nemici pubblici e indagini su cittadini al di sopra di ogni sospetto, Eastwood confeziona una spy story che intrattiene ma non entusiasma.

Il ritmo è pacato e il tentativo di velocizzarlo, alternando presente e passato, spesso confonde invece che calamitare lo spettatore che procede nella visione quasi per inerzia. Lo “stile acqua e sapone” del regista a stelle e strisce ormai lo si conosce: colpi di scena ridotti a zero e tanto cinema classico, sia dal punto di vista narrativo che espressivo. Eppure rispetto ai vertici di Mystic River, Million Dollar Baby e la duplice interpretazione della battaglia di Iwo Jima l’impressione è che manchi qualcosa.

La costruzione lineare, che ricorda quella romanzesca, con tanto di narratore in voice-over, ci sta; in fondo quella di J. Edgar è una storia, la versione ufficiale della Storia. Ma forse è proprio questo il problema per quanto la regia, la sceneggiatura (di Dustin Lance Black, premio oscar con Milk di Gus Van Sant) e il sempreverde Leonardo Di Caprio cerchino di rendere Hoover un uomo in carne ed ossa (e in questo certo non li aiuta il trucco da horror anni ’80), il personaggio non crea empatia e resta sospeso in un gelido limbo di finzione.

La macchina da presa scandaglia la sua vita privata ma non altrettanto i suoi reali sentimenti. Una prova in scala di grigi che pure trova i suoi punti di forza nelle ambientazioni, in alcuni dialoghi incisivi, nell’interpretazione comunque lodevole di Di Caprio e nella scelta di riprendere grandi avvenimenti della storia americana (come l’omicidio Kennedy) dalla porta secondaria.

Quando si riaccendono le luci il vecchio Clint un applauso se lo merita…solo uno però.

Scritto da Micol Lorenzato

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Chiara C.
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