E’ uscito il 14 ottobre nelle sale italiane il nuovo film diretto da Paolo Sorrentino, This must be the Place.

La storia ha come protagonista Cheyenne (Sean Penn), un’ex rockstar catatonica che si è ritirata a vita privata in Irlanda. Alla notizia della morte del padre, con il quale non aveva più rapporti da anni, Cheyenne decide di tornare in America e così parte per un viaggio alla ricerca dell’uomo che aveva umiliato il genitore ai tempi della prigionia nel lager nazista.

Al suo primo film in lingua inglese, Paolo Sorrentino sembra trovare fonte di ispirazione nel road movie indipendente americano – con una formula già usata in classici come Paris, Texas (al quale rende omaggio il divertente cameo dell’ormai ottuagenario Harry Dean Stanton), Una storia vera e Broken Flowers – ambientando il viaggio nei grandi spazi aperti della provincia yankee più umile e desolata, popolata di figure grottesche e molto umane. In questo contesto, il viaggio diventa per il lunatico protagonista l’occasione per darsi un obiettivo, una idea precisa (come continua a ripetere lui stesso), ma anche per superare un passato ingombrante che fino a quel momento ha condizionato la sua esistenza.

La sceneggiatura, dal ritmo disteso e stralunato, talvolta zoppicante, trova un’adeguata traduzione in immagini nel virtuosismo stilistico del regista partenopeo, ricco di piani sequenza che sembrano spaziare dalla mente del protagonista verso l’esterno, riprendendo il tutto con sguardo complice, ma al tempo stesso ironico e distaccato. L’approccio verso il tema dell’Olocausto, per quanto rimanga sullo sfondo, appare abbastanza interessante e non scade nella banalità didascalica.

Determinante risulta il contributo di Sean Penn, straordinario nel dare spessore e credibilità ad un cinquantenne che sembra non avere superato lo stadio adolescenziale, sia per quanto riguarda il look dark, eccessivo e fuori moda (ispirato a quello di Rob Smith, frontman dei Cure), che per l’atteggiamento di rifiuto di ogni responsabilità e di inadeguatezza: una sorta di Pierrot uscito devastato dagli anni Ottanta, che alterna malinconia, saggezza ed incoscienza, sfoderando un sarcastico umorismo minimalista. Il resto del cast si adegua con caratterizzazioni non tutte riuscite (decisamente pleonastico il personaggio della moglie, interpretata da Frances McDormand), ma in alcuni casi simpatiche (il proprietario del pickup di Shea Whigham), commoventi (la nipote dell’aguzzino, impersonata da Kerry Condon) o ciniche (il cacciatore di nazisti di Judd Hirsch).

Ottima la colonna sonora composta da David Byrne, musicista molto amato da Sorrentino, che appare in un cameo, esibendosi nella canzone che dà il titolo al film, in una sequenza di memorabile virtuosismo.

Applaudito a Cannes ma rimasto a secco di premi, This must be the Place è una delle opere più accattivanti del cineasta napoletano, ma non di certo il suo capolavoro, dato che la pellicola, fin troppo edulcorata, presenta un buonismo di fondo, tipicamente hollywoodiano, che la rende commercialmente più appetibile, ma molto meno personale dei suoi film precedenti.

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Chiara C.Irina M.Sara M.
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