Nathan (Taylor Lautner) è un ragazzone ammeregano come tanti altri: va alle feste e si sbronza con gli amici, corre in moto, spicca nello sport (lotta greco-romana), è goffamente innamorato della vicina di casa, e i suoi genitori non sono quello che sembrano. Fino a che una sera non si ritrova una bomba nel forno (una bomba vera, intendo, non la classica teglia di melanzane alla parmigiana), e da lì in poi è costretto a scappare e a cercare di scoprire la sua vera identità.

Abduction, che parte come una teen-comedy ipervitaminica per trasformarsi, dopo una breve parentesi thrilleresca, in un film d’azione, è un film talmente brutto che quasi si stenta a crederci. Voglio dire, non è semplicemente brutto; e non è neppure quel tipo di brutto da risultare divertente; è così brutto che alla fine fa il giro e ritorna a coincidere con una bruttezza pura e semplice. L’unica cosa di cui si possa prendere nota è come il film costituisca l’ennesimo gradino discendente in quella disperata spirale negativa che ha intrapreso il regista John Singleton dopo la sua bella opera prima (Boyz n the hood). Un percorso di auto-abbandono che dura da vent’anni, e che annovera obbrobri del calibro di Shaft, 2 fast 2 furious, Four Brothers, e altri che non starò qui a citare (pellicole comunque dal discreto successo commerciale, con il quale si può spiegare la mancata scomparsa del Singleton dalle rubriche degli agenti hollywoodiani). Il Singleton è un regista che conosce bene la tecnica, ma la fa girare completamente a vuoto (certi movimenti laterali di macchina, certi controcampi, certi zoom con carrello: un repertorio vasto e ben padroneggiato, al servizio del nulla); che sa dirigere gli attori, ma non riesce a ottenere neppure da quelli più bravi una recitazione che vada oltre il minimo sindacale (e certo i dialoghi non aiutano, finti e telefonati come sono).

Siccome è inutile parlare ulteriormente del film (non solo per i buchi, ma per l’intrinseca stupidità della sceneggiatura), cercherò di concludere in maniera positiva questa recensione, elecando tutti quegli elementi del film che mi hanno colpito: l’incisura sopraorbitale e il nitore fluorescente dei denti del Lautner (un attore non totalmente disprezzabile, ma che dovrebbe rendersi conto come non basti una semplice perseveranza tomcruisiana nel tirare le espressioni di base per portare a casa una pellicola intera); le sopracciglia chucknorrisiane della Collins; le rughe della Bello; la ciomposità della Weaver; Jason Isaacs nella sua interezza (se vi state chiedendo dove l’avete già visto, vi risparmio la gugolata: è il Lucius Malfoy di Harry Potter); le labbra lucenti del Molina.

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