Los Angeles, oggi, nei quartieri residenziali dove vive chi da giovane si è divertito ed ora è liberal ma con soldi, bambini e la testa a posto. Roger Greenberg, invece, non ha famiglia né particolare successo; reduce da un grave esaurimento nervoso, torna a L.A. da New York, ospite nella casa del fratello, che è in vacanza con moglie e bambini. Tra i resti di un passato fallimentare, c’è spazio per nuove conoscenze che, forse, possono rendere lo stare al mondo di Roger meno fine a se stesso.

Al contrario di quanto lo stupido titolo italiano vorrebbe far credere, il mondo di Greenberg non ha nulla di stravagante, né di spensierato. Dopo Il calamaro e la balena (2005) e Il matrimonio di mia sorella (2007), Baumbach torna nei territori a lui congeniali della crisi esistenziale e familiare, ma lo fa sottraendo ogni possibile avvenimento rilevante e lasciando che il perché e il come della situazione del protagonista emergano da pochi elementi e stralci di conversazione: veniamo così a sapere che è colpa di Roger se la promettente band di cui faceva parte da giovane si è sciolta, dopo che lui ha rifiutato un contratto discografico per perseguire un impossibile ideale di indipendenza dal “sistema”; che, mentre lui ancora cerca di convincersi e convincere che sia stata la scelta giusta, gli altri sono andati avanti, ma c’è chi, come l’amico Ivan (Rhys Ifans), ci ha rimesso la felicità. Così ora Roger è perennemente fuori posto, anche letteralmente, in una città e in una casa non sue: le stanze piene delle tracce dei propri abitanti, la piscina utilizzata dai vicini sconosciuti, l’ex-fidanzata ora mamma e quasi divorziata (Jennifer Jason Leigh) da cui Roger è ormai separato da un abisso di priorità e ricordi differenti. Vite vissute da altri che il protagonista osserva e giudica con supponenza, ma in cui tenta di entrare, finendo però per rimanervi accanto, intorno. Non a caso sono molti i simboli di immobilità disseminati nel film: i burattini, i giocattoli a molla, l’omino di plastica areato inquadrato per ben due volte sullo sfondo di un incrocio.

L’empatia con un personaggio così sgradevole e perso nelle sue ossessioni è difficile, se non fosse che la sua antipatia e il suo malessere sono profondamente riconoscibili, merito dell’ottima interpretazione di Ben Stiller; e soprattutto, Baumbach sceglie di affiancargli Florence (Greta Gerwig), l’assistente-governante venticinquenne del fratello, una sorta di ancora di salvataggio per le incombenze quotidiane (il cane, la tintoria, la spesa) a cui finisce per aggrapparsi anche Roger. La centralità di Florence è suggerita dall’incipit e ribadita dalla scelta di alternare il punto di vista di Roger al suo. Ma lungi dall’essere una qualsiasi figura salvifica, Florence è un’altra sfumatura di una stessa difficoltà di trovare il proprio posto nel mondo. E’ una sorta di punto di congiunzione tra il senso di vuoto di Roger e il senso di onnipotenza dei ventenni “ordinari” da cui Greenberg è attratto (perché gli ricordano se stesso giovane) e al tempo stesso spaventato (dalla facilità di rapporti, relazioni, parole, interessi che li caratterizza), come evidenzia, in modo fin troppo didascalico, la sequenza della festa della nipote.

Se la concatenazione degli eventi, o meglio dei non-eventi, appare a tratti un po’ casuale e ripetitiva, il film si regge bene sull’equilibrio tra i personaggi, come già detto tutti molto riusciti: Roger e Florence da una lato, Ivan e il cane Mahler dall’altro, nella parte degli elementi “deboli” e indifesi, facili capri espiatori di ogni immotivato ed improvviso scatto di insofferenza del protagonista. Anche a quarant’anni si può, se non cambiare, aggiustare il proprio sguardo sulle cose importanti, e quell’ “ok, it’s you” finale sembra un’efficace punto di ri-partenza.

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