La vita è facile ad occhi chiusi: la recensione
Ad occhi chiusi è tutto più facile: vivere sotto una dittatura, fuggire dalla propria condizione, incontrare John Lennon
1966: in piena Spagna franchista, un insegnante di inglese di Albacete (Javier Cámara) si mette in testa di andare a conoscere John Lennon sul set di How I won the War di Richard Lester, le cui riprese si stanno svolgendo in quel periodo ad Almería. Sulla strada avrà modo di incontrare e conoscere Belén (Natalia de Molina) e Juanjo (Francesc Colomer), due ragazzi alla ricerca di un proprio posto in una società apparentemente immobile.
Distribuito nelle sale italiane con soli due anni di ritardo rispetto alla sua uscita in Spagna, La vita è facile ad occhi chiusi si presenta come una commedia accattivante, a metà fra la storia di formazione e il viaggio on the road, sotto la cui superficie agrodolce vengono elaborati temi di una certa portata. David Trueba, già sceneggiatore per lo sporco e pletorico Perdita Durango di Álex de la Iglesia e solido regista per conto proprio (si veda l’interessante-pur-se-pretenzioso Madrid, 1987), riunisce in quest’opera una serie di riflessioni intrecciate sulla società spagnola di metà anni 60, in bilico fra la staticità tradizionalista della dittatura di Franco e gli echi dei cambiamenti che stanno covando nel resto del mondo, e alcune condizioni personali esemplificative dell’epoca (l’insegnante di mezza età fuori tempo massimo per fare il ribelle; la futura ragazza madre che cerca una qualsiasi via di fuga in una società profondamente machista e cattolica; il ragazzino che scappa da un padre autoritario pur se benevolo). Fortunatamente Trueba non scade mai troppo nel didascalico, evitando con maestria trappole di diverso genere (il cinema nel cinema, il triangolo sentimentale, e, non ultima, il buon gusto nell’aver evitato di mettere un qualsiasi cartello con la scritta “Tratto da una storia vera” – cosa che effettivamente è), e mantenendo una regia sobria nella quale non mancano comunque occasionali pennellate autoriali (certe inquadrature frontali, alcuni campi lunghi affollati di personaggi, una fotografia estremamente cromatica e coerente).
La strepitosa prova di Javier Cámara è il fulcro della pellicola: il personaggio al quale dà vita risulta essere una figura bonaria e ciarliera che lascia però intravedere qua e là tinte molto più fosche e oscure, perfetta epitome di una generazione di spagnoli che si è trovata a convivere con un disagio represso e consenziente la propria stagione politico-esistenziale. Peccato solo per i restanti personaggi, i quali non escono mai veramente da una certa piattezza stereotipica in un’opera che, al contrario, riesce generalmente a illustrare senza imboccare e a intrattenere senza scadere in soluzioni scontate.
Gualtiero B. | Davide V. | ||
6/7 | 7 |
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