Wild: la recensione
Sotto lo sguardo ruvido della macchina da presa di Jean-Marc Vallée (Dallas Buyers Club), Reese Witherspoon torna sul grande schermo con una performance estremamente intimista, a dispetto del panismo quasi dannunziano. Smessi i panni della biondina d’America dei tardi anni Novanta, grintosa ma patinata, (Pleasantville, Cruel Intentions e soprattutto La rivincita delle bionde), l’attrice lascia nuovamente emergere le doti recitative che le sono valse l’Oscar per Walk the Line (2005). Ma se la sua June Cash brillava per il perfetto controllo della gestualità e della voce, ciò che colpisce di Cheryl, protagonista di Wild, sono invece i segni visibili del processo di smarrimento e riscoperta della capacità governare il proprio essere.
Come l’eponimo romanzo (adattato da Nick Hornby), il film racconta la storia vera di riscatto e rinascita della protagonista dopo la morte della madre e la conseguente spirale di depressione, eroina, sesso promiscuo e rottura dei pochi legami rimasti. Cheryl Strayed (“randagia”) decide di affrontare da sola il Pacific Crest Trail dalla California fino al confine col Canada, percorrendo 1700 km a piedi fra deserti e cime innevate con uno zaino più pesante di lei.
La facile retorica del farsi da sé e della sfida alla wilderness radicata nell’identità americana, che sovverte la visione romantica europea della natura come forza suprema, in fondo non è che un macro-espediente per favorire il senso di empowerment dello spettatore. In realtà non conta tanto l’arrivo, così radicalmente diverso da quello di Into the Wild, a cui rimandano titolo e tema, quanto il percorso fisico e psicologico, con tutte le annotazioni visive sulla quotidianità e sull’introspezione della dimensione del cammino. La vastità degli spazi si contrappone indubbiamente al microcosmo itinerante esteriore e interiore della protagonista, come ben sottolinea l’alternanza sapiente di primi piani impietosi e campi lunghi mozzafiato. Ma più che nell’ovvia sfida fra io e non-io, fra la fragilità di una donna in condizioni psicofisiche precarie e l’immensità della natura onnipotente, la vera dicotomia prende corpo sul volto scavato di Cheryl stessa, costretta ad affrontare i propri demoni.
Minacce animali e umane e mancanza di viveri e acqua si risolvono sempre con relativa facilità. La vera nemesi di Cheryl è il tormento interiore, legato al rapporto simbiotico con la madre e alla mancata elaborazione del lutto, che Vallée illustra attraverso numerosi flashback (pur penalizzati da voice-over troppo didascalici). La linearità del cammino viene così movimentata dalla perfetta interpretazione di Laura Dern, pari a quella della Witherspoon. Meno rilevanti i personaggi maschili, dal marito troppo Capitan America agli uomini incontrati lungo il percorso, macchiette o saggi dispensatori d’aiuto. Ma è giusto che sia così: Wild è un film profondamente femminile, proprio perché Cheryl non si mette in marcia per sfidare gli stereotipi, ma per affrontare l’alter ego deleterio che porta dentro di sé.
Alice C. | Thomas M. | ||
8 | 8 |
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