Loach in 4. Family Life: la recensione
“Il caso di Janice è esemplare per quel che concerne la lotta di un individuo contro il sistema sociale. Per impedire a un individuo di diventare sovversivo, di rimettere in discussione tutto un sistema, la società possiede delle armi feroci. Le due più efficaci sono la famiglia e la psichiatria tradizionale” (Kenneth Loach si racconta). Non a caso Ken Loach, storico interprete del malessere del proletariato inglese e delle sue lotte, ha così spesso rivolto l’attenzione al nucleo familiare, alla sua natura reazionaria, emanazione diretta, nel tessuto sociale, delle macrodinamiche del potere. E proprio la famiglia e la psichiatria tradizionale sono al centro di Family Life (1971), rielaborazione della docufiction per la televisione In Two Minds, che analizza gli effetti delle cure psichiatriche in una ragazza, condotta alla schizofrenia dalla madre vessatrice. Famiglia, quindi, come cellula schizofrenogena che soffoca risorse e potenzialità, pretende il conformarsi passivo e registra come elemento di pericolo la vitalità, l’imprevedibilità e la messa in discussione dello status quo proprie dell’adolescente.
L’elemento che più salta all’occhio sin da subito è proprio la sproporzione tra i comportamenti della protagonista e le reazioni di chi la circonda: una sosta prolungata alla fermata della metropolitana con sguardo assente scatena non solo l’intervento delle forze dell’ordine ma anche le prime perplessità sulla sua salute fisica e mentale. La normale autoaffermazione di sé come entità autonoma equivale a un affronto, a una pericolosa ribellione a cui la madre risponde martellante con frasi come “so meglio di te ciò che vuoi” o “tu sei l’ultima a sapere ciò che è giusto”, che mettono continuamente in discussione l’identità di Janice e la sua possibilità di difenderla e affermarla. Siamo di fronte a un potere che, in un circolo vizioso senza uscita, riduce l’altro in una situazione di schiavitù psicologica, insicurezza e confusione proprio per giustificare l’eccesso di controllo che gli impone.
Ma l’intervento del Dr. Donaldson, seguace dell’antipsichiatria di Ronald Laing, rende manifesto come anche questo cambiamento di prospettiva – schizofrenia non più malattia organica ma disturbo relazionale – seppur epocale sia alla prova dei fatti ingenuo. Non basta, infatti, la ricollocazione in un nuovo ambiente, quando i modelli e gli schemi di comportamento sono ormai interiorizzati. La soluzione più praticabile appare quindi, paradossalmente, il rifugiarsi in uno spazio di libertà apparentemente disfunzionale: la fuga dalla realtà nell’addestramento del falco in Kes, la spinta al riscatto nella maternità in Ladybird, Ladybird, la rincorsa disperata di quell’unica possibilità di salvezza – un futuro diverso con la madre, ora in carcere – in Sweet Sixteen. O proprio la follia, per Janice, come ultima possibilità di autodeterminazione dalla quale i genitori sono esclusi; spazio per sé, inaccessibile agli altri, in cui non esistono richieste, disapprovazione e giudizi.
Scritto da Barbara Nazzari.
Barbara N. | ||
7 1/2 |
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