Pinku eiga, il cinema erotico giapponese
...e altre trappole dell'orientalismo
Tōmon sarà il Portale Est da varcare per parlare di cinema dell’Asia orientale su Cinema Errante. La premessa implicita di ogni approfondimento, recensione o focus sarà quella di bandire l’esotismo in tutte le sue forme, cercando di trattare le tematiche ricorrenti o i generi peculiari di una data cinematografia tenendo sempre in considerazione il contesto produttivo e culturale dai quali nasce. L’orientalismo è infatti una piaga dura da debellare, basti pensare a La Repubblica che annunciava la vittoria di Lav Diaz a Locarno con “Il Pardo d’Oro va a un film filippino di cinque ore e mezza”, mentre nel presentare l’ultimo film di Jia Zhangke titolava: “La nuova Cina del Tarantino d’Oriente”. Traspaiono, come in tutti gli approcci orientalisti, un velato senso di superiorità e di scherno, così come la necessità di ri(con)durre i modelli peculiari di un paese a qualcosa di prossimo a “noi”, cercando di annullare le differenze culturali o, all’apposto, considerandole troppo “strane” per essere capite e assimilate.
Come caso introduttivo vi porto quello emblematico dei pinku eiga giapponesi, pellicole erotiche che si collocano in un contesto produttivo e distributivo ben definito (L’impero dei sensi di Oshima, ad esempio, non rientra nel genere). Nate nei primi anni ’60, hanno immediato successo: se ne producono tante e a ritmi elevatissimi (anche 200 all’anno). A nobilitarle per primo è Wakamatsu Koji con gli “scandalosi” passaggi a Berlino e a Cannes. Sin da allora il pinku è stato una vera e propria palestra per i registi che, una volta adempiuti i loro doveri verso i produttori (come inserire una scena di sesso ogni dieci minuti), erano liberi di sperimentare e osare, arrivando così a opere politiche o visionarie come quelle di Wakamatsu e Adachi Masao. Fino agli anni ’90 il cinema erotico, pur evolvendosi commercialmente, ha continuato ad assolvere questa funzione, tanto che anche registi oggi di primo piano, come Kurosawa Kiyoshi, Zeze Takahisa, Hiroki Ryuichi e Suo Masayuki sono partiti da lì, ma il caso più emblematico è quello di Takita Yojiro, proprio l’autore di quel Departures tanto delicato e commovente, quanto ricattatorio e auto-orientalista (a proposito…), addirittura vincitore dell’Oscar per il miglior film straniero. Takita annovera infatti nella sua filmografia giovanile ben undici episodi di Chikan densha, serie di film erotici a sfondo sociale sui molestatori dei treni. Niente di cui scandalizzarsi ovviamente, anzi, può essere preso a epitome di un sistema produttivo che permetteva a giovani registi di saltare la gavetta da assistenti, per avere subito la possibilità di girare in prima persona, confrontandosi con le problematiche del caso e potendo, al tempo stesso, godere di una certa libertà creativa, prima di passare al cinema di “Serie A”. Con l’avvento dell’home video negli anni ‘80 e ancora di più con Internet, il pinku è diventato un genere in via d’estinzione, ma la sua importanza storica e pratica per il cinema giapponese rimane inestimabile.