Venezia 71. She’s Funny That Way: la recensione
“If it makes you happy to feed squirrel to the nuts, who am I to say nuts to the squirrel?”. In questo surreale gioco di parole risiede l’essenza del nuovo film di Peter Bogdanovich, intitolato She’s Funny That Way e presentato fuori concorso a Venezia 71, con il quale il cineasta settantacinquenne, che negli ultimi vent’anni non aveva più brillato né per la quantità né per la qualità delle sue opere, torna alla forma smagliante dei tempi d’oro. Il fatto che la frase sia una citazione del film Fra le tue braccia di Ernst Lubitsch la dice lunga su come Bogdanovich abbia voluto ergere a nume tutelare un indiscutibile maestro di eleganza e di leggerezza per esplorare ancora una volta quei terreni della screwball comedy già percorsi negli ottimi Ma papà ti manda sola? e E tutti risero.
She’s Funny That Way è ambientato in una Manhattan che più sofisticata non si può, fra teatri di Broadway, ristoranti chic e magazzini d’alta moda. E’ in questo mondo glamour e dal fascino nostalgico che si muove la protagonista (Imogen Poots), una ragazza di umili origini che sogna di diventare una star del cinema ma si arrangia come squillo, fino a quando non incontra un regista teatrale (Owen Wilson) che, con una semplice frase e un po’ di soldi, le cambierà la vita. Scatenando, però, una reazione a catena che coinvolgerà tutti i suoi conoscenti.
C’è qualcosa di autobiografico nel personaggio un po’ naif interpretato da Owen Wilson, playboy maldestro ma al tempo stesso generoso, che si lascia andare con una ragazza molto più giovane e conosciuta con un incontro facile. Esattamente come capitò a Bogdanovich con la playmate Dorothy Stratten, in una storia finita tragicamente e destinata a lasciare segni indelebili nella vita del regista, che dopo la morte di lei perse in buona parte il gusto per la commedia brillante e l’umorismo intelligente che lo caratterizzavano. Doti che, invece, qui il regista sembra aver ritrovato del tutto, confezionando un girotondo di situazioni sentimentali e di buffi equivoci degno di Lubitsch. Bogdanovich ci fa infatti capire come, pur restando fuori da Hollywood, si possano ottenere risultati freschissimi cimentandosi in uno dei generi più classici e più hollywoodiani possibili, senza tuttavia correre il rischio del mero esercizio di stile senza contenuto di molti autori della scena indie. Il regista ama i suoi personaggi, li tratta con tenerezza e ce ne mostra le pulsioni con complicità. Sono numerose le sequenze esilaranti, fra cui quella in cui tutti quanti i protagonisti finiscono per caso a cena nello stesso locale all’insaputa dei rispettivi partner e quelle delle prove a teatro in cui, sempre per caso, tutti si ritrovano a interpretare sul palcoscenico situazioni che vivono davvero.
L’ottimo cast interpreta bene le ridicole e imbarazzanti situazioni nelle quali i loro personaggi costantemente finiscono, e in questo Bogdanovich trae il meglio sia da Wilson che da attori istintivamente simpatici come il misurato Will Forte, ancora nel ruolo del mite come in Nebraska. Anche l’istrione gallese Rhys Ifans e una Jennifer Aniston per una volta davvero convincente, nella parte di una psichiatra bastarda quanto incapace, esprimono tutta la loro vis comica in una commedia divertente quanto sincera, in cui il regista non ha paura di dichiarare il suo amore per un cinema lontano dalla Hollywood contemporanea e la sua gratitudine verso coloro che hanno creduto in lui e condiviso la sua visione della settima arte.
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