The Innocence of Muslims, l’innocenza di Alan Roberts
Alan Roberts, chi era costui? Fino a pochi giorni fa, questo nome era noto soltanto agli appassionati di cinema trash, come uno dei tanti registi di bizzarri sottoprodotti made in USA. Una sorta di versione yankee del nostro Joe D’Amato, capace di spaziare, con risultati poco esaltanti, in quasi tutti i sottogeneri dell’exploitation movie, dall’erotismo alla commedia, dalla fantascienza al thriller. Un modesto tuttofare, finito però presto a fare l’editor di opere altrui.
Eppure, la scorsa settimana, il nome di Roberts, 65 anni, è tornato prepotentemente alla ribalta, legato ad una delle più pazzesche e, al tempo stesso, pericolose beffe cinematografiche di sempre: The Innocence of Muslims, il mai tanto reclamizzato film blasfemo su Maometto, in cui quest’ultimo viene ritratto come un fanatico, assassino e anche pedofilo, sarebbe stato, infatti, diretto da lui. O meglio, Roberts avrebbe diretto la pellicola originale, dal titolo Desert Warriors, che prevedeva un diverso copione in cui non c’era nessun riferimento al profeta, trattandosi di un exploitation movie violento e volgare quanto, però, innocuo. La trasformazione dell’opera in un manifesto anti-islamico, con annessi gli insulti a Maometto, sarebbe avvenuta in post-produzione, con un’operazione di ridoppiaggio degna dei San Culamo, ad opera del sedicente Sam Bacile, al secolo Nakoula Basseley Nakoula: un oscuro personaggio di origine copto-egiziana, con precedenti penali negli Stati Uniti e legato al mondo dell’integralismo religioso cristiano, produttore e distributore del film.
Ora, il risultato dell’operazione è sotto gli occhi di tutti. Focolai di cieca violenza infiammano il mondo islamico, accusando gli infedeli americani, rei di avere offeso il profeta, con ferocia inusitata, e venendo meno all’antico principio secondo il quale ambasciator non porta pena. Obama è in difficoltà, i suoi avversari politici gongolano e puntano il dito contro un governo debole, mentre i fanatici di ogni credo sperano in una nuova guerra di religione, in uno scontro di civiltà da cui ne rimarrà soltanto uno. Follia pura. Ma forse era proprio questa l’intenzione di Nakoula: creare il caos, esasperare le tensioni, con il fine ultimo di screditare l’amministrazione USA.
Fanta – non tanto – politica a parte, che cosa c’entra il povero Alan Roberts in tutto questo casino? Nulla. La sua professionalità, la sua pur modesta dimestichezza con la macchina da presa sono state usate, con l’inganno, per tutti altri scopi che il semplice intrattenimento, cui il cineasta si era sempre dedicato senza mai dar fastidio a nessuno, se non a qualche bigotto moralista che si scandalizza di fronte ad un paio di tette o ad una scena di sesso. Quegli stessi bigotti che ora lo hanno coinvolto in questa beffa atroce e dannosa, in nome di un dio a loro immagine e somiglianza.
Dando un’occhiata alla carriera del regista, lo troviamo attivo nei primi anni Settanta nel nascente genere porno, sia sottoforma di farsa grottesca à la Russ Meyer (The Sexpert, 1972) sia nella sua evoluzione hardcore con il macho John Holmes (Panorama Blue, 1974), per poi passare ad un erotismo più soft e patinato, con i due capitoli di Young Lady Chatterley (1977 e 1985). Nel 1980, Roberts si misurò con la commedia, pur senza rinunciare ad un sottofondo sexy, girando per la Cannon The Happy Hooker goes Hollywood (distribuito in Italia come Giarrettiera tutta matta), con la bella starlette Martine Beswick e la partecipazione del vecchio comico Phil Silvers. Un risultato modesto, così come quello raggiunto con un’altra commedia, Round Trip to Heaven (1992), interpretata dai pur simpatici Corey Feldman e Zach Galligan, con il veterano delle serie d’animazione Shuki Levy nella doppia veste di sceneggiatore e autore delle musiche.
Due, però, sono i titoli più rappresentativi nella pur miserabile filmografia del cineasta: Karate Cop (1991), squinternato mix di fantascienza post-apocalittica à la Mad Max e acrobazie in stile Van Damme, che si avvale di un cameo di un David Carradine evidentemente in bolletta, e Save Me (1994), un thriller perlomeno dignitoso, che vede la stupenda Lysette Anthony al centro di un triangolo erotico con il macho Harry Hamlin e il misterioso Michael Ironside. Fu il suo ultimo film dietro la macchina da presa: dopo allora, quasi vent’anni di oscuro lavoro di editing e produzione, fino alla chiamata di Nakoula, che avrebbe potuto rappresentare una seconda occasione per rilanciarsi come regista. Ma non è stato così.
Alla prova dei fatti, qual è la vera colpa di Alan Roberts? Quella di aver girato una decina di film brutti, tuttavia assolutamente innocui, di cui l’ultimo, Desert Warriors, sarebbe stato probabilmente il più brutto. Un crimine contro il buon gusto, che non prevede alcuna sanzione. Ma non certo di avere scatenato l’odio religioso degli islamici, con tutte le conseguenze del caso. The Innocence of Muslims non è farina del suo sacco. Di una sola innocenza, sul conto di Roberts, c’è da mettere la mano sul fuoco: la sua.
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Bergman al confronto é un novellino senza di lui non avremmo visto lo squallore delle immagini del film e poterle affinare a quelle giornaliere che ci propone la TV (scusate se é poco).