The Ides of March, film d’apertura di Venezia 68°, in concorso.

Durante le primarie in Ohio, il giovane e brillante addetto stampa Stephen, che lavora per il candidato democratico Mike Morris, viene a conoscenza, sulla propria pelle, degli inganni e della corruzione che lo circondano.

Alla sua quarta regia, George Clooney sceglie un’ambientazione in un futuro prossimo per il suo cinema caratterizzato dal forte impegno politico, e da una particolare attenzione per le trame e gli intrighi nascosti dietro la facciata sorridente della società statunitense. In questo caso, ad essere messo a nudo è il sistema elettorale, dominato dall’ipocrisia e dal compromesso, in cui gli interessi di pochi finiscono col prevalere sulla volontà popolare, e i buoni intenti del singolo nulla possono contro la macchina del potere, cui può soltanto adeguarsi per non esserne irrimediabilmente travolto.

Dal punto di vista registico, Clooney sceglie uno stile molto classico, senza virtuosismi, che segue i personaggi nelle loro scelte spesso estreme con un’eleganza discreta, senza cedere al sensazionalismo di certi suoi colleghi, ma centrando sempre il bersaglio. La sceneggiatura – tratta dal dramma teatrale Farragut North di Beau Willimon, e da questi adattata per il cinema assieme al regista e a Grant Heslov – è però, nella sua linearità, molto efficace nel descrivere un mondo asettico, estremamente attento all’immagine, in cui i rapporti umani si riducono a meri mezzi per conseguire dei risultati, in cui esiste solo il calcolo, e ogni altro concetto, come l’amicizia, è superfluo e relativo.

A portare avanti l’elegante e gelido gioco al massacro, una squadra di attori di razza, tutti eccellenti nei rispettivi ruoli. Dal giovane Ryan Gosling, il cui idealismo pian piano si sgretola dinanzi alla realtà dei fatti, all’insinuante, malinconica Evan Rachel Wood, personificazione della stagista sexy ma sprovveduta, dai giganteschi Philip Seymour Hoffman e Paul Giamatti, burattinai grigi, più che oscuri, a un’occhialuta Marisa Tomei, lontanissima dai suoi precedenti sexy e dannati, la recitazione è sobria e tutta in sottrazione, in perfetta sintonia con la disillusa morale di George; il quale, dal canto suo, si ritaglia il personaggio del candidato alla Presidenza progressista e fotogenico – i cui manifesti elettorali ricordano quelli di Obama – ma non così pulito come vuol far credere, tenendo a freno il suo divismo e mettendosi in gioco al servizio di sé stesso e della causa.

Se i paragoni con Clint Eastwood appaiono quantomai prematuri, va comunque riconosciuta al brizzolato cineasta un’importanza notevole nel panorama mondiale di celluloide, se non altro per la sua capacità di essere, al tempo stesso, autore e interprete di un cinema che coniuga egregiamente cultura e spettacolo, riflessione e divertimento.

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Chiara C.Leonardo L.
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