Game of Thrones: Garden of bones è il deserto che circonda la più grande e inaccessibile città del mondo, Qarth, che conserva la memoria di ogni visitatore indesiderato come giardino di ossa e speranze disattese: una prospettiva non troppo confortante per Daenerys e il suo khalasar. La giovane Targaryen infatti viene invitata con benevolenza a Qarth e, una volta arrivata, malevolmente respinta dai Tredici per non aver voluto mostrare i draghi che porta con sé. Solo l’intercessione di uno dei governanti, ex migrante particolarmente sensibile alla tematica dei respingimenti in deserto, fa sì che per l’esausta compagnia si aprano le porte della città, svelando meraviglie inaspettate.

Riprende quindi la storyline di Daenerys ma senza grandi scossoni; la storia si fa altrove e questa densa, multifocale e irrisolta puntata raccoglie le fila di tanti discorsi, lasciandoli sospesi all’apice del climax. Centro della scena resta, aimè, il solito intollerabile Joffrey, protagonista di due episodi terribili ma terribilmente precisi nel delineare il profilo psicologico di questo nuovo Re Folle. Prima la punizione e l’umiliazione di Sansa, colpevole di essere sorella di quel Robb Stark che continua ad infliggere sconfitte all’esercito dei Lannister, spettacolo crudele quanto ingiusto, a cui pone fine soltanto l’intervento di Tyrion. The king can do as he likes, rivendica il piccolo despota, mostrando ancora una volta la sua visione del potere come puro esercizio di volontà, irrazionale, anche deleterio ma comunque unica affermazione di sé capace di soddisfarlo. Alla luce di ciò si rivela ingenua la mossa di Tyrion, su suggerimento del pragmatico Bronn, di offrire al nipote distrazioni sessuali per acquietarlo; la violenza e il sadismo sono infatti le uniche forme della sua pulsionalità. A fronte di questa piccola sconfitta Tyrion guadagna terreno nei confronti della sorella Cersei, smascherando la sua relazione col cugino Lancel, ambiguo ex scudiero di Re Robert: terrorizzato dall’idea che Joffrey possa venire a saperlo Lancel acconsente a diventare informatore di Tyrion.

Come già accennato prosegue l’avanzata di Robb Stark e dell’esercito del Nord; d’altra parte la guerra, agìta e in preparazione, resta uno dei nuclei narrativi più ricchi di problematicità, in cui si fanno più evidenti le aporie che tanto caratterizzano le Cronache. Non esiste una verità assoluta, una giustizia assoluta: quello che sembra inaccettabile e ingiusto, ad un secondo esame può rivelarsi l’unica via di salvezza e, viceversa, quello che pare giusto può tradursi in sofferenza e morte. Robb, che pure si sta mostrando accorto, non potrà non scontrarsi con queste contraddizioni e già ora il confronto con una ragazza, tra morti e agonizzanti, lo costringe a riflettere sullo scopo del suo combattere e sull’assurdità della guerra che colpisce proprio chi, dalla guerra, non ha nulla da guadagnare.

Per quanto riguarda la nostra Stark preferita, Arya, rinchiusa con Gendry e gli altri prigionieri nell’inquietante fortezza di Harrenhal, dobbiamo ringraziare Tywin Lannister (chi l’avrebbe mai detto!) per il suo provvidenziale intervento, poco prima del supplizio di Gendry. Tra l’altro la descrizione delle notti passate insonni, in attesa del proprio turno coi torturatori, è efficacissima: come ebbe a dire Yoren nella scorsa puntata, arriverà il momento in cui anche Arya dimenticherà il volto del padre ma i nomi di chi l’ha ucciso no, non li scorderà mai. Piccola parentesi: la sconvolgente tortura del topo è tutt’altro che elemento fantasy ed è copyright della sempre ingegnosa Santa Inquisizione.

Last but not least continuano i movimenti manifesti e sotterranei attorno ai fratelli Baratheon: l’arrivo di Catelyn Stark decisa a negoziare un’alleanza, l’intervento di un sempre più irritante e maldestro Lord Baelish che prima offre la sua complicità a Renly, poi cerca indiscrezioni dalla moglie Margaery e infine gioca sulla preoccupazione di madre di Cat (e sull’emozione per la restituzione delle spoglie di Ned) per trattare la liberazione di Jaime. E poi la scena clou, l’incontro tra Renly e Stannis, due caratteri a confronto. Il primo, fin troppo tranquillo e bonario, ricorda al fratello l’importanza di un largo consenso e di vaste alleanze, come quelle che lui può vantare (a man without friends is a man without power). Ma l’intransigente Stannis lancia il suo ultimatum: si arrenda e riavrà il suo posto in Concilio, niente di più. Perché Stannis non avrà alleanze, non sarà particolarmente amato e benvoluto ma ha capito che con l’onore non si vincono le guerre. Con le ombre sì. Una piccola, spaventosa, azione cattiva (e una piccola, spaventosa, scena finale) che non dovrebbe intaccare la sua natura di uomo buono, secondo la granitica divisione di cui Melisandre è profetessa. Look to your sins, Lord Renly. The night is dark and full of terrors.

Scritto da Barbara Nazzari.

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