Martin Freeman torna a vestire i panni da viaggio di Bilbo Baggins con Lo Hobbit – La desolazione di Smaug, capitolo due della seconda trilogia tolkieniana firmata da Peter Jackson. A un anno esatto dall’uscita di Un viaggio inaspettato, il 13 dicembre 2013 si torna a marciare verso la Montagna Solitaria. Ma se il ritorno nella Terra di Mezzo è sempre una gioia per gli occhi assetati d’avventura e delle sterminate lande neozelandesi, lo status di Capitolo di Mezzo rappresenta il primo, grande ostacolo che realizzatori e spettatori sono stati chiamati ad affrontare.

La discrepanza tra la lunghezza del romanzo e l’estensione del progetto di Jackson era lampante sin da subito. Già il primo film si era concesso numerose sequenze dilatate e alcuni innesti extra-tolkieniani; il seguito, acefalo e inconcluso in quanto capitolo di transizione, procede a briglia sciolta allargando le maglie dell’intreccio originario e cucendovi personaggi alloctoni e sottotrame patchwork, distinguendosi però per la cura nella realizzazione e per l’effetto complessivo. Sono quindi giustificabili tanto la perplessità nei confronti di un adattamento target-oriented, che si discosta ampiamente dal testo di partenza, quanto l’apprezzamento di un prodotto sicuramente godibile in senso puramente edonistico, sia per la cura visiva, trademark del team jacksoniano, sia per l’ondata di endorfine e di adrenalina risvegliate dalle splendide sequenze d’azione e soprattutto dall’atteso confronto con il drago Smaug.

La propensione ad abbandonarsi all’esperienza spettatoriale non implica un’amnistia completa delle divergenze rispetto al romanzo: stridono infatti i tagli immotivati delle sequenze più liriche, sostituite dalla storyline dell’elfa Tauriel, che alla fine dei conti non aggiunge molto alla narrazione, se non un incremento delle quote rosa (ma Evangeline Lilly, pur innegabile sex symbol dai tempi di Lost, non ha la grazia eterea di Cate Blanchett o la leggiadria fanciullesca di Liv Tyler). Lo stesso ritorno di Orlando Bloom nei panni di Legolas si allontana dallo Hobbit tolkieniano, pur avendo il merito di riportare sullo schermo un ottimo personaggio e di indagarne il rapporto col padre Thranduil (Lee Pace), re degli Elfi Silvani.

E’ proprio nel Bosco Atro, reame di Thranduil, che la compagnia giunge all’inizio del film, sfuggendo agli orchi grazie all’aiuto del muta-pelle Beorn. Del (lungo) primo tempo si apprezzano in particolare le sequenze d’azione, fra ragni giganti, la cattura da parte degli elfi e la rocambolesca fuga in stile Colorado Boat (con gli orchi alle calcagna). A livello psicologico spicca invece l’evoluzione di Bilbo, sempre più consapevole del potere nefasto dell’Unico Anello, ma anche più sicuro di sé e più abile nel guidare la compagnia, che risente dell’irruenza di Thorin (Richard Armitage) e dell’assenza di Gandalf (Ian McKellen), inviato alla fortezza di Dol Guldur per indagare sulla minaccia del Negromante.

A fungere da raccordo con il secondo tempo è il contrabbandiere Bard (Luke Evans), che traghetta i nostri verso Pontelagolungo. Fra stratagemmi per sfuggire alle guardie, armi da recuperare e un dispotico Governatore, l’immaginario tolkieniano si fonde con toni e dinamiche da avventura grafica, almeno fino all’inizio della parte più cupa. Ma è proprio quando il gioco si fa duro che il film dà il meglio di sé, con un’ultima parte assolutamente spettacolare. A Dol Guldur l’ormai iconico occhio di Sauron spalanca le voragini del Male, con uno scontro di enorme impatto visivo; a Erebor è invece l’occhio di Smaug ad aprirsi, come già visto alla fine del primo capitolo. Il confronto fra Bilbo e il drago è trasportato su schermo con una maestria che riprende e trascende quella delle migliori produzioni fantasy/adventure dell’ultimo decennio. E’ evidente in particolare l’influenza visiva della saga di Harry Potter, dallo scontro fra Harry e Voldemort alle movenze da Basilisco di Smaug e soprattutto alle fulminanti epifanie dell’occhio di Sauron, che colpiscono Bilbo attraverso l’Anello, invece che tramite cicatrici e horcrux.

Cercando di individuare la preziosa Arkengemma in un tesoro che manderebbe Zio Paperone in crisi d’agorafobia, l’eroico Hobbit si muove sui carboni ardenti (dentro e fuori metafora), conscio di trovarsi di fronte a un avversario ben più imponente e minaccioso del contraltare Gollum (suo comprimario nella scena madre del primo film). Su di lui troneggiano il corpo possente, il fuoco e soprattutto la voce cavernosa di Smaug, che fortunatamente Luca Ward mantiene quasi all’altezza dell’originale di Benedict Cumberbatch. L’esito si vedrà però soltanto nel terzo capitolo, La battagli delle cinque armate (dicembre 2014), e agli spettatori non resta che godersi i titoli di coda sulle note dell’appropriata “I See Fire” di Ed Sheeran… ma del resto la cima di una montagna è il luogo da cliffhanger per antonomasia!

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Davide V.Francesco B.Gianluca L.Leonardo L.Thomas M.
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