Gravity: la recensione
Odissea nello spazio fra tecnologia 3D ed eccessi di retorica
Parlando di Gravity, film d’apertura di Venezia 70, James Cameron ha dichiarato: “Penso che sia il miglior film sullo spazio mai realizzato“. Forse un’iperbole azzardata, per un’opera di science fiction sicuramente pregevole sul piano visivo, ma non altrettanto su quello narrativo.
Mettendo in scena la space odyssey di due sfortunati astronauti (Sandra Bullock e George Clooney), soli alla deriva nello spazio, fra tempeste di detriti cosmici e senza comunicazioni con la Terra, Alfonso Cuarón ricrea con indiscutibile abilità la mancanza di forza di gravità della location, con lunghissimi piani sequenza che utilizzano al meglio la fotografia in 3D stereoscopico, e i due attori che fluttuano come palloncini in mezzo a rottami spaziali che sembrano bucare lo schermo.
Peccato che la sceneggiatura (scritta da Cuarón assieme al figlio Jonás) non offra un adeguato supporto a tanta magnificenza registica: se nella prima parte il film ha una sua tenuta spettacolare, e tiene accesa la tensione, a lungo andare la storia mostra qualche ingenuità (fra cui il tentativo di contatto con un radioamatore terrestre), e soffre di un tasso di retorica perfino superiore alla media hollywoodiana (soprattutto nella morale di fondo, più che mai conservatrice), sfociando nell’interminabile sequenza finale, in cui il realismo cede totalmente il passo all’enfasi in una chiara metafora pro-vita (con l’astronave alla stregua di incubatrice, da cui non può che scaturire una rinascita).
Per quanto riguarda gli interpreti, mentre la Bullock riesce a infondere al personaggio della dottoressa una certa malinconia, risultando convincente, altrettanto non si può dire di Clooney, troppo glamour e ammiccante come astronauta (tanto che ci si aspetta da un momento all’altro che estragga una cialda di Nespresso), e pronto a spiegare il perché di ogni azione, togliendo allo spettatore ogni possibilità di interpretazione.
Troppo scarto fra stile e contenuto hanno dato dunque vita a uno spettacolo ben confezionato, ma lontano dalla fantascienza intimista di Kubrick e Tarkovskij cui Cuarón sembra ispirarsi, con un messaggio buonista analogo ad Apollo 13 e Deep Impact. What else?
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Alice C. | Antonio M. | Chiara C. | Edoardo P. | Giacomo B. | Giacomo F. | Giusy P. | Leonardo L. | Sara M. | Thomas M. | ||
8 | 8 | 8 | 8 | 6 | 8 | 6 | 8 | 9 | 8 |
io non l’ho trovato così conservatore: per una volta abbiamo un’eroina, donna, che, se si sorvola sull'”aiuto” di una provvidenziale apparizione (che però ha solo la funzione di farle tornare alla mente cose che aveva imparato al corso di pilota) e qualche ansimo di troppo (ma è pur sempre persa nello spazio! giusto George Clooney può riuscire a mantenere il suo aplomb gigione anche in una situazione del genere), si salva praticamente da sola. il finale è visivamente brutto, ma dopo un’ora e mezza senza alcun punto di riferimento “fisico” (né per noi, né per la protagonista), l’enfasi sulla posizione nuovamente “verticale” e sul contatto con la terra mi è sembrata azzeccata. altra cosa che ho apprezzato: non ho mai visto uno scardinamento totale così riuscito nei confronti degli spazi ordinari, del “sopra” e del “sotto”, dei limiti dello schermo. e poi non riesco a rimanere indifferente a questo aggiornamento dell’aspetto puramente “attrazionale” del cinema, cose che ti volano addosso e tu salti sulla poltrona, come il treno dei fratelli Lumière! sono d’accordo invece sull’eccessiva retorica per quanto riguarda il background con figlioletta morta e conseguente “mi lascio morire che tanto per me la vita non ha più senso”.
Premetto che mi viene ancora la tachicardia quanto sento la colonna sonora di Apollo 13 (certo, è anche merito di James Horner :-p), quindi forse sono un po’ di parte, ma non ho riscontrato uno scarto così netto tra forma e sostanza. E’ vero, soprattutto nella seconda parte ci sono un po’ di eccessi retorici, non ultime le metafore su nascita e rinascita (già evidenti nella lunga sequenza in cui la Bullock si toglie la tuta e si rannicchia in posizione fetale), però ho apprezzato l’onestà narrativa del prezzo da pagare per il lieto fine (anche se quest’ultimo in effetti è molto pompato). Clooney secondo me funziona bene proprio perché è così insopportabilmente sicuro di sé: indubbiamente infastidisce il suo fare da “no Martini, no landing”, ma proprio questo aggiunge efficacia alla sua seconda “comparsata”. Ma a nessuno di voi veniva da cantare “Can you hear me Doctor Stone? Can you heeeeaaaar meeee”? 🙂
Punto di vista più che rispettabile il tuo, Alice, e a quanto sembra condiviso dalla maggioranza della redazione, ma proprio quegli aspetti che hai citato nel commento (eccessi retorici, metafore su nascita e rinascita, lieto fine pompato) secondo me appesantiscono il film, rendendolo troppo hollywoodiano. Da un autore come Ron Howard te lo aspetti, ma da Cuarón
La mia parte cinica si aspettava che spuntasse un alligatore sul finale 🙂