Pacific Rim è l’ultimo film diretto da Guillermo del Toro, ambientato in un futuro nel quale l’umanità è minacciata da colossali mostri provenienti da un’altra dimensione. Un pugno di coraggiosi, alla guida di giganteschi robot, rimane l’ultimo baluardo per salvare il mondo dall’apocalisse.

A cinque anni di distanza da Hellboy – The Golden Army, il visionario regista messicano torna dietro la macchina da presa con un kolossal di fantascienza intriso di nostalgia nei confronti di un cinema tipicamente giapponese, quello dei mostri misteriosi Kaiju (diffusi nel panorama sci-fi nipponico dagli anni ’50 in poi), e dei robottoni giganti Mecha (protagonisti di numerosi anime seriali a partire dagli anni ’70, e qui chiamati Jaeger). Non a caso, dedica l’opera a Ray Harryhausen e a Ishiro Honda, che del cinema di mostri furono i principali artefici.

Sfoderando la consueta maestria registica, del Toro ripropone con grande puntualità l’immaginario filmico a cui si ispira, dalla raffigurazione dei nemici come esseri colossali che richiamano i dinosauri (citando i vari Godzilla diretti da Honda) a quella dei robot con pilota umano (secondo lo schema ideato da Go Nagai con Mazinga Z e Ufo Robot Goldrake), il cui meccanismo di funzionamento prevede un legame neurale fra la macchina e l’uomo (come in Neon Genesis Evangelion, che ne è l’epigono più recente). Le sequenze di battaglia fra Jaeger e Kaiju restano subito impresse per la loro potenza visiva, con scontri di devastante fisicità che citano, aggiornandoli alla tecnologia iperrealista del cinema contemporaneo, quelli visti negli anime da quarant’anni a questa parte, con tanto di utilizzo di pugni al plasma e di spade giganti capaci di segare in due un bestione volante. Peccato che la velocità delle riprese renda difficile distinguere i personaggi coinvolti, e che le dimensioni delle creature sembrino variare a seconda delle inquadrature.

Dal proprio canto, anche lo sceneggiatore Travis Beacham si mantiene del tutto fedele al modello nipponico, celebrando eroi disposti a sacrificare le proprie vite per il bene dell’umanità, ideale che travalica ogni altro tipo di sentimento. Lo stoicismo da samurai di quasi tutti i protagonisti (primo fra tutti l’eroico comandante, a cui Idris Elba infonde notevole carisma), la castità del rapporto fra i due giovani piloti del Jaeger principale (il Charlie Hunnam di Sons of Anarchy e la brava attrice giapponese Rinko Kikuchi, vista qualche anno fa a Venezia in Norwegian Wood) e il conflitto fra paternità (naturale o adottiva) e obbedienza militare richiamano una concezione tipicamente giapponese, così come molto anime è il contrappunto comico-demenziale rappresentato dai due scienziati perennemente in contrasto (l’occhialuto Charlie Day e il claudicante Burn Gorman). La caratterizzazione rimane fedele ai cliché fino in fondo, gli stereotipi abbondano (specialmente quando si parla di russi e cinesi, raffigurati con uno spirito da guerra fredda) e alcune scelte narrative denotano una certa ingenuità e prevedibilità (fra cui il sacrificio finale), ma era inevitabile in un’opera simile, trattandosi dell’aggiornamento di un genere cinematografico che della sospensione dell’incredulità aveva fatto il proprio punto fermo.

Un blockbuster nostalgico, dunque, ma fedele alla linea anche nell’umore di fondo: nel tripudio di effetti speciali, fra devastazioni e mazzate, si respira infatti un forte senso di impotenza, di annichilimento, quello stesso sentimento causato dal terrore della bomba atomica tipico della società del Sol Levante dal dopoguerra in poi. Gli esseri umani sono ridotti a spettatori terrorizzati di scontri fra titani, sconfitti anche sul piano morale (emblematico lo spassoso trafficante d’organi di Kaiju, interpretato dall’attore feticcio del regista Ron Perlman) e chiamati a pagare il conto di errori passati e presenti sottoforma di mostri. Un conto che può essere saldato solamente creando altri mostri, a loro volta guidati da umani con la vocazione del kamikaze.

Tirando le fila, si deve avere amato i gommosi nemici di Megaloman, tifato per Il grande Mazinga e i suoi pugni atomici e sognato di impugnarne la spada diabolica, nonché avere una minima infarinatura di cultura nipponica per apprezzare a fondo Pacific Rim; altrimenti, si rischia di scambiarlo per il solito blockbuster hollywoodiano à la Battleship, pieno di retorica ma privo di anima.

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Alice C.Chiara C.Leonardo L.
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