Con “Kissed by FireGame of Thrones prosegue il discorso impostato nei precedenti episodi, in perfetto equilibrio tra azione e scavo psicologico e tra vecchi e nuovi personaggi introdotti sulla scena, offrendo una delle puntate più intense e convincenti della serie. In “And Now His Watch is Ended” avevamo lasciato la Fratellanza senza Vessilli stretta attorno all’imminente duello tra Beric Dondarrion e il Mastino, certa di una Provvidenza rivelatrice che segna il netto confine tra giusti e peccatori. Ma le sentenze del Signore della Luce non sono poi così inflessibili e, sotto lo sguardo stupefatto di Arya, Beric, colpito a morte, viene riportato in vita dal Prete Rosso Thoros di Myr. Un potere che ha permesso a Beric di sfuggire alla morte altre sei volte in passato, come racconta lo stesso Dondarrion ad Arya; amara occasione, per quest’ultima, di ripensare al padre, condannato senza alcuna possibilità di intercessione divina. Una scena, questa del combattimento, di grande impatto visivo – dominata dal guizzare delle fiamme nella caverna – e centrale nel delineare ulteriormente il culto di R’hllor, ambigua forma di manicheismo etico venata di occulto .

Prosegue il percorso di rovesciamento radicale del personaggio di Jaime, da arrogante Sterminatore di Re a umanissima vittima degli eventi. Dopo le umiliazioni e menomazioni subite nel viaggio verso Harrenhal e dopo aver saputo da Roose Bolton – che volutamente e crudelmente tergiversa – della vittoria dei Lannister nella battaglia di Black Water Bay, Jaime getta la maschera e davanti alle allusioni di Brienne sul suo senso dell’onore racconta la vera storia della morte del Re Folle, che gli è valsa la triste nomea di traditore. Si scopre così che il giuramento di fedeltà venne rotto non per arrivism,o ma per salvare la vita a migliaia di innocenti che Aerys era deciso a bruciare vivi con l’altofuoco, ultimo gesto disperato prima della disfatta. Dal quadro emergono vivide le caratterizzazioni dei personaggi: l’inaspettata umanità di Jaime che, contro gli interessi familiari, esorta il re ad arrendersi pacificamente ai Baratheon e a non fare affidamento sulle ingannevoli promesse dei Lannister; ancora una volta, l’ottusa inflessibilità di Ned, che gli impedì al tempo di capire quale era stato il vero ruolo di Jaime nella situazione, attribuendogli quell’etichetta di amorale e traditore che, come nella più classica profezia che si autoavvera, ha reso il primogenito Lannister il personaggio cinico e disincantato visto nelle scorse stagioni (ma in fondo by what right does the wolf judge the lion?); la correttezza di Varys che, differentemente da Pycelle, aveva cercato di fermare Aerys, ulteriore dimostrazione della maggiore integrità (morale se non fisica) che lo contraddistingue all’interno del Concilio Ristretto, in particolar modo da un sempre più ignobile Lord Baelish.

Intanto, beyond the wall, Jon Snow si integra sempre più nell’esercito di Mance, nonostante i sospetti di alcuni, rivelando, se pur con riluttanza, preziosi informazioni sulla Barriera e sugli avamposti presidiati. Perché l’unione possa dirsi conclusa manca solo l’incontro ravvicinato con Ygritte, in cui il giovane Jon dimostra di sapere qualcosa, dopotutto, perlomeno nell’arte amorosa.

Ma veniamo all’altro snodo cardine della puntata, insieme alla confessioni di Jaime, l’ineluttabile percorso di Robb sulle infauste orme del padre. Tutto comincia col gesto crudele e impietoso di Rickard Karstark, che uccide i due piccoli Lannister prigionieri, folle per la morte dei figli e l’impossibilità di vendicarsi su Jaime. Un terreno di prova che rivela tutte le contraddizioni e i rischi dell’irrazionale senso di giustizia degli Stark, che costò la vita a Ned e ora mette Robb nella condizione di perdere la guerra, nonostante la vittoria in ogni battaglia. Il dilemma etico è sempre quello, che si ripresenta inesorabilmente dall’inizio della serie: agire secondo giustizia, in questo caso punire l’omicidio di innocenti, e mettere così a repentaglio migliaia di vite, perdendo i Karstark come alleati? O lasciare impunito il crimine, nascondere ai Lannister l’accaduto e continuare la propria azione di guerra nell’ingiustizia e nell’inganno? E Robb non può che prender la prima strada, decapitando con rabbia il vecchio, rabbia di chi sa di essere in qualche modo prigioniero della propria inflessibilità, rabbia di chi sente ormai la sfiducia e lo scherno dei propri uomini, in quelle parole dette prima di morire: Kill me and be cursedYou are no king of mine. Ma forse un ultimo spiraglio si apre, un attacco a sorpresa a Castel Granito con l’aiuto dei Frey, tutto da guadagnarsi con le solite contrattazioni matrimoniali tanto care al vecchio Walder.

Ed è finalmente venuto il momento di conoscere la moglie di Stannis, la squilibratissima Selyse, adepta tra i più invasati del culto di R’hllor e vittima, ancora più del marito, del fascino oscuro di Melisandre, e la dolcissima Shireen, figlia sfigurata condannata all’isolamento e alla solitudine, confortata, in passato, solo dall’amicizia di Ser Davos. La visita che la piccola fa al Cavaliere delle Cipolle, dopo aver saputo della sua reclusione, è una delle scene più tenere e struggenti mai viste, così come è potente il passaggio dal racconto delle gesta di Aegon il Conquistatore alla marcia degli Immacolati. Nelle terre dell’Est, Daenerys ha infatti definitivamente guadagnato la lealtà e la fiducia del suo esercito di uomini liberi; qualche ombra si avverte sul versante consiglieri dove i pur pragmatici e schietti Ser Mormont e Ser Barristan cominciano a contendersi un ruolo di rilievo a fianco della giovane Targaryen.

Mentre ad Approdo del Re, come sempre, continuano i veri e propri game of thrones: l’incrocio di complicità  tra Cersei e Lord Baelish e tra Tyrion e la famiglia Tyrell – mirata per i primi a contenere l’eccessivo influsso dei Tyrell a corte, per i secondi a concludere il matrimonio tra Sansa e Ser Loras – si infrange, dolorosamente per tutti, contro la spietata lucidità di Lord Tywin: la soluzione ideale, che mette i Lannister in una posizione di potere incontrastata su tutti i fronti, è quella di un doppio matrimonio tra Sansa e Tyrion e tra Cersei e Ser Loras, una decisione ormai presa e fuori discussione. E di fronte alla terribile fermezza di Tywin anche gli scaltrissimi Cersei e Tyrion sembrano animali spauriti.

Ah, giusto, “The Climb”. In “The Climb”, ahimè, non succede poi molto. Assistiamo all’arrivo di Melisandre tra gli uomini della Fratellanza in cerca di Gendry, l’erede dei Baratheon che la sacerdotessa sta cercando per i suoi oscuri propositi. E va a buon fine, nonostante la scarsa collaborazione di Orell, l’estenuante scalata del titolo, che porta l’esercito di Mance sulla cima della Barriera. Fanno da cornice a questi due nuclei narrativi una nutrita serie di momenti dalla dubbia rilevanza: i bisticci tra Meera e Osha, il falò di Sam e Gilly, il macchiettistico incontro tra Ser Loras e Sansa, la discussione in casa Stark su “chi deve sposare chi” dall’esito più che scontato (anche se Brynden è tostissimo sempre e comunque) e il dialogo tra Tyrion e Cersei sul loro infausto destino, tra i più scialbi di sempre.

Salvano la puntata, facendole guadagnare la sufficienza, il sadico gioco tra Theon e il suo misterioso torturatore, la scena a tavola con Brienne e Jaime (non perché sia così determinante ma perché sono bellissimi e li vorremmo sempre vedere insieme), il braccio di ferro tra Lady Olenna e Lord Tywin su chi abbia i figli più viziosi e quindi il coltello dalla parte del manico, vero e proprio scontro tra titani, e il monologo di Lord Baelish in chiusura, elogio del caos, da abbracciare senza alcun freno, sulle terribili immagini di Ross martirizzata. Insomma, in Game of Thrones ci sono sempre state puntate più riflessive, che alla progressione orizzontale preferivano il dialogo brillante, l’analisi dei personaggi e delle dinamiche di potere. Il peccato di “The Climb” è non saper fare in modo troppo convincente né l’una né l’altra cosa. Ma non ci scoraggiamo: siamo solo ai primi gradini sulla lunga e travagliata scala del caos.

Scritto da Barbara Nazzari.

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