verso sud, venezia72, 11 minutes, skolimowski

Questa 72esima edizione della Mostra d’Arte Internazionale del Cinema di Venezia era cominciata sotto i peggiori auspici: sfiducia, amarezza e molti film dimenticabili. O almeno questa era la sensazione appena sbarcati al Lido, confermata dai primi commenti dopo le proiezioni dell’inizio, dove “film inutili” era tra i commenti più scritti e pronunciati. Ma poi la qualità dei film è cresciuta, ha animato gli animi cinefili, ha scaldato i cuori e le conversazioni che si dividevano tra sokuroviani e skolimowskiani, gitaiani e kauffmaniani, per non parlare degli amori a prima vista per Non essere cattivo di Caligari e Per amor vostro di Gaudino. A Mostra appena iniziata scrivevamo «Noi intanto aspettiamo, fiduciosi che i film ci smentiranno e il sistema riparta» sperando di andarcene felici e cinefilamente contenti. Così è stato, anche se con molte remore sul fatto che il sistema possa ripartire. Ci prova, indubbiamente, ma resta impantanato negli errori che ha prodotto. Organizzativamente questa Mostra è stata ineccepibile, con proiezioni puntuali, nessun problema tecnico o allarmi bomba o fuori programma. Ma dietro c’è di più. La sensazione è che le spinte (a parole) al rinnovamento (necessario) per stare al passo coi tempi sbandierate  e ai mille convegni e incontri pubblici, vengano poi frenate da chi, da quel cambiamento, vedrebbe i propri privilegi indebolirsi.

Non è una questione vecchia critica / nuova critica, pellicola / digitale, sala / web, ma una palude, anzi laguna, di melma che rallenta chi vorrebbe proporre o provare qualcosa di nuovo, che coinvolga maggiormente il pubblico e stimoli critici e addetti ai lavori. Pochi i giovani presenti e con spazi di confronto e iniziative dedicate sempre più controllati, guardati con sospetto dai grandi vecchi e dalla (inculata) generazione di mezzo.

Basta vedere i film: opere prime che guardano al passato e autori ultrasessantenni capaci di analizzare senza sospetti i nuovi media. Skolimowski con il suo 11 minutes costruisce un saggio di regia sul come guardare alla realtà attraverso i nuovi media e ci mostra quel pixel nero che non potrà mai essere colmato, anche con tutte le telecamere del mondo. Perché alla fine quello che conta è il racconto (di chi siamo), e il Cinema ha bisogno di ritornare verso il proprio sud alla ricerca di un contatto maggiore con il pubblico e gli addetti ai lavori. E in attesa di scoprire se i premi sapranno riconoscere questa necessità, noi abbandoniamo il Lido con aumentato ardore cinefilo. Basterà?

Scritto da Sara Sagrati.