Verso Sud 9 - Golden Globes 2015

Sembra sempre più evidente che lo strumento più potente a favore della Pace sia il senso dell’umorismo. Saper ridere, soprattutto di se stessi, vuol dire riconoscere le differenze che ci caratterizzano. Ridere di, ridere con, ridere per è in fondo un atto d’amore e di fiducia, il primo step necessario per aprirsi all’altro da sé, far cadere muri e vivere esperienze.

Cosa c’entra questo con il cinema? Non è forse vero che tra i suoi fini c’è l’avvicinamento, l’immedesimazione, l’abbattimento delle barriere. Il pubblico, in sala ma non solo, guarda verso lo stesso schermo, vive un’emozione e un’esperienza comune, ognuno a suo modo. L’amore bugiardo per alcuni è misogino, per altri un’ode alla forza (inespressa) delle donne, American Sniper per alcuni è guerrafondaio e reazionario, per altri un biopic che pone domande sull’utilità della guerra. Contrapposizioni di merito che possono far nascere dialoghi sterili e/o stuzzicanti, ma basate su coordinate comuni da percorrere. A volte sono coordinate che non condividiamo, e scegliamo di seguire cartelli direzionali diversi. Benissimo. Ma poi c’è chi preferisce abbattere i cartelli e far cambiare strada agli altri, e purtroppo non solo per fare uno scherzo.

Lunedì scorso, durante la consegna dei Golden Globes ci saremmo aspettati di vedere una presa di posizione fragorosa, magar buonista, ipocrita o politically correct, nel fare a gara a chi avrebbe detto più forte: Je suis Charlie. Lo hanno fatto sul palco solo in due (per la cronaca Jared Leto e George Clooney), di più sul red carpet. È stata invece presa in giro la Corea del Nord, con tanto di “gara” a chi ringraziava di più la Sony, record produttivo per opere vincitrici.

Il risultato è che “l’elefante nella stanza” ha barrito fortissimo. Perché nessuno ha messo in correlazione l’hacking alla Sony e l’attacco a Charlie Hebdo, eppure con metodi, vittime e ripercussioni completamente diversi, ma l’obiettivo è lo stesso: soffocare la voce di chi “ride di”.

E allora continuiamo a procedere verso sud del nostro umorismo, continuando a deridere il totalitarismo che impone l‘unificazione delle esperienze, delle visioni del mondo e delle idee. Perché poi il Globe lo ha vinto come miglior comedy Gran Budapest Hotel, un film che può essere letto come inutile divertissement o grottesca storia di fratellanza, ma di certo è un’ode all’unità europea. Perché alla fine, a noi piace perderci, ma sappiamo anche chi abbatte i cartelli sarà seppellito da una risata, perché la storia (e il cinema) ci insegna che l’amore, anche quello bugiardo, trionfa sempre.

Scritto da Sara Sagrati.