La storia d’Italia della Guerra Fredda è un grande serbatoio di storie per il cinema, tra complotti, grandi vecchi, manovratori occulti, servizi segreti deviati, depistaggi, trame oscure. L’uscita sugli schermi di uno dei tanti saccheggiatori di questo patrimonio nazionale di storie, Ustica di Renzo Martinelli, secondo film sul disastro aereo del 1980 dopo Il muro di gomma di Marco Risi, ripropone i tanti interrogativi che emergono a ogni operazione del genere. Il primo riguarda la pertinenza del medium cinema rispetto al tema trattato. Per un’opera d’arte che ha a disposizione in media due ore, il lavoro che gli sceneggiatori devono fare, partendo da atti, documenti, inchieste non può che essere di riduzione. Impossibile nel poco spazio temporale concesso dare luogo alla sfaccettatura che questi casi presentano, impossibile confrontare le diverse ipotesi. Tanto vale sposare una tesi, schierarsi apertamente e sfacciatamente. JFK di Oliver Stone rimane uno dei capisaldi del genere proprio per questo. Poco importa se la tesi che viene espressa sia attendibile, l’importante è che ci sia una coerenza di sceneggiatura, cinematografica, all’assunto che si espone. Il secondo problema, connesso al primo, consiste nella difficoltà di incrociare la forma della fiction cinematografica con quella dell’inchiesta, giornalistica, investigativa. Il territorio più adatto a esporla è quello del libro, anche più capiente, del giornale, del dossier televisivo e del documentario. Non ci risultano peraltro opere di fiction che abbiano elaborato e portato avanti una tesi originale, ma tutti si sono rifatti a testi, libri, processi preesistenti. Un’eccezione clamorosa è quella de Il caso Mattei di Francesco Rosi, opera che peraltro, dal punto di vista del linguaggio, ibrida la ricostruzione-fiction con il reportage. Il film ebbe la consulenza del giornalista investigativo Mauro De Mauro la cui successiva scomparsa è verosimilmente in relazione con gli squarci di verità da lui aperti sul caso Mattei. Tornando a JFK, rileviamo come questo rappresenti una delle vette più alte di questo tipo di operazione. Per la sua consapevolezza di fiction, abbinata allo sfacciatamente esibito atto di abbracciare una tesi. Per la sua spregiudicatezza, sempre altrettanto manifesta e dichiarata, nella commistione tra documento e fiction, mescolando materiale di repertorio vero e finto materiale di repertorio in realtà ricostruito fedelmente sulla base di informazioni d’archivio, scivolando gradualmente verso la fiction del finto materiale di repertorio che ricostruisce situazioni non certe ma frutto di congetture, fino ad arrivare alla fiction riconoscibile come tale.

Per giudicare un film sui misteri d’Italia, ci si dovrebbe muovere quindi su due parametri. L’onesta dell’impegno civile da un lato, anche senza valutare la fondatezza dell’eventuale tesi, e dall’altro la forma cinematografica adottata, nella sua consapevolezza di ricostruzione/elaborazione della realtà. Non una sorpresa che il film di Martinelli, lo spunto iniziale di riflessione, sia fortemente deficitario in entrambi i casi.