verso sud arene estive pixels ozu

Grande successo per la rassegna dei capolavori di Ozu, con code per entrare a vedere Viaggio a Tokyo. Molte importanti location di eventi all’aperto hanno aggiunto il cinema alla propria offerta, proponendo rassegne tematiche, vecchi film, seconde visioni e registrando un continuo aumento di pubblico. Il cinema d’estate sembra in gran forma, anche se ha cambiato forma. Rassegne di film che staccano più biglietti dei fondi di barile che infestano le sale cinematografiche tradizionali, arene e festival che aprono sale all’aperto. Buon segno?

Da un punto di vista di “immaginario collettivo”, abitudine alla visione, condivisione degli spazi pubblici (e non) delle città, si tratta di un ottimo segno, il segno che il cinema ha ancora un grande potere seduttivo. Eppure i nuovi film, quello che escono in sala, estivi e non, fanno fatica a trovare il proprio posto in quell’immaginario collettivo. Come se fosse rimasto indietro. Eppure, alla visione di un piccolo gioiello come Final Cut: Ladies and Gentlemen (appena proiettato alla rassegna estiva milanese Nuovo Cinema Parenti – Gli Inediti | Anno III) è evidente che il linguaggio e l’anima del cinema non sono mai cambiati. Che il problema sia il tono?

Se anche d’estate il cinema come luogo e mezzo per stare insieme richiama pubblico, mentre i nuovi film faticano a diventare “condivisi”, salta all’occhio che il problema non sta nel media, ma nel prodotto. Prendete Pixels. Sulla carta avrebbe tutte le carte in regola per essere un simpatico divertissement, un’operazione nostalgia divertente per i grandi e curiosa per i piccoli. E invece l’indirizzo di marketing ha causato la produzione di un film per nessuno che utilizza il peggio del passato e il peggio del presente (linguaggio escatologico e scurrile su simboli di una generazione di geek mal cresciuti).

E allora smettiamola di dare la colpa al cinema e andiamoci a cercare i buoni film. E se dobbiamo riscoprire i capolavori di Ozu per farlo, ben venga. In fondo guardare al passato non vuol dire rivestirlo di contemporaneità, ma sentirlo contemporaneo. Perché quando ci si addentra verso sud in un film del 1953 e si realizza che già allora parlava “di te come sei oggi”, il cinema ha vinto. Per sempre. E se i film di oggi fossero in grado di ritornare a essere universali, al posto che indirizzarsi a cluster merceologici specifici, probabilmente le arene estive del 2035 li mostrerebbero con gran successo.

Scritto da Sara Sagrati.