L’Uomo d’Acciaio: la recensione
L’uomo d’acciaio, di Zack Snyder, è l’ultima versione cinematografica di Superman, un reboot che spazza via tutto quanto sin’ora visto in sala sul personaggio (dai classici degli anni ’70-’80 di Richard Donner alla poco memorabile reprise ad opera di Bryan Singer) e ne rilegge le origini e gli esordi supereroici: sfuggito all’olocausto del pianeta Krypton e adottato da una coppia terrestre, i Kent, che gli ha dato il nome Clark, il ragazzo vive la sua natura superomistica come una condanna, nascondendo i suoi poteri. Almeno fino a quando la Terra non sarà messa seriamente sotto tiro da una minaccia proveniente dallo spazio e Clark, superati i complessi, capirà che è il momento di mostrare gli attributi, costi quel che costi.
Sotto l’egida della Warner, la DC Comics porta avanti la sua concezione cupa e seriosa del cinecomic, che ha visto nella trilogia del Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan una validissima alternativa di stile e di contenuto ai supereroi autoironici, coloratissimi e un po’ fresconi proposti dalla Marvel, e per questo si affida a Zack Snyder, che aveva dato il meglio di sé proprio con due trasposizioni – 300 nel 2007 e Watchmen nel 2009 – che pure non brillavano per la leggerezza di toni. “L’uomo d’acciaio è il film più realistico che ho girato” ha dichiarato il regista “Superman va preso seriamente, accettato e compreso”. Il problema è che Snyder non è Nolan, e anche David S. Goyer, lo sceneggiatore che aveva restituito spessore a Batman, questa volta si dimostra poco in forma.
L’idea di girare un film realistico sul supereroe più inverosimile di sempre risulta, di partenza, molto rischiosa. Sul piano registico, va bene il restyling del costume del personaggio, senza gli iconici mutandoni gialli sopra la calzamaglia azzurra, che diventa blu spento e si rivela la divisa di tutti i guerrieri kryptoniani, con la conseguenza che la S sul petto assume tutt’altro significato che l’iniziale di Superman. Accettabile anche la scelta di mostrare fin dall’inizio il protagonista con tutti i suoi poteri, senza passare per il filtro rassicurante dell’identità segreta del giornalista Clark Kent, di cui rimane solo il nome. Peccato che Snyder rovini tutto con una regia estremamente confusa, con riprese talmente concitate da annientare il senso stesso delle immagini. La fotografia dai toni dark spesso risulta buia e basta, le sequenze di volo denotano scarsa perizia nel seguire Superman perdendolo dal quadro perché troppo veloce e i combattimenti fra personaggi dai poteri esageratamente sovrumani sembrano una riproposizione di quelli di The Avengers, senza possederne né il divertimento né l’adrenalina (passabile la battaglia con i due guerrieri kryptoniani per le strade di Smallville, che cita Superman II del 1980; troppo pieno di riferimenti agli attentati terroristici dell’11 settembre l’attacco al centro di Metropolis).
Non che sul piano della sceneggiatura la situazione sia migliore: la narrazione non lineare (sulla falsariga di Batman Begins), con il racconto del passato di Clark che si alterna, in tutta la prima parte, con un presente fatto di fughe, offre il destro a sequenze spesso talmente plateali da sconfinare nel mélo più imbarazzante (come quella del tornado, in cui il padre adottivo fa abbastanza la figura del fesso), a semplici refusi (come la barba di Clark che va e viene a seconda della drammaticità degli eventi) e a un rapporto con la bella giornalista Lois Lane che, eliminata da subito la ricerca e la scoperta dell’identità segreta di Superman (alla base del film del 1978), finisce per rimanere confinato a una superficialità eccessiva, quasi come se dovesse svilupparsi per forza. La morale di fondo, inoltre, risulta molto americana (“Lui non è un nostro nemico”, “Non toccare la mamma”), così come alcune battute da sbruffone, troppo hollywoodiane per un protagonista sempre serissimo e quasi timido.
Cosa resta, dunque, da salvare in questo poco rifinito cinecomic? Sicuramente il cast, con il muscoloso inglese Henry Cavill che non fa rimpiangere il povero Christopher Reeve nell’impersonare un uomo d’acciaio mai così tormentato, e una grande Amy Adams che si conferma una delle attrici contemporanee più versatili, infondendo a Lois brillantezza, determinazione e un aggraziato sex appeal (in quest’ultimo campo, la dark-lady kryptoniana Faora di Antje Traue è una concorrente all’altezza). Lodevole anche Michael Shannon, il cui ritratto del malvagio generale Zod, guerriero kryptoniano privo di scrupoli, non scade mai nel ridicolo e ben rappresenta la follia e il fanatismo dei militari, e bravissimo il sempre più corpulento Laurence Fishburne, che nella parte di Perry White, direttore del Daily Planet, incarna le qualità più nobili di un semplice umano. Infine Russell Crowe, che interpreta Jor-El, il vero padre di Superman, rimane sullo schermo molto di più del suo predecessore Marlon Brando (che per un’apparizione di pochi minuti mandò in rovina i produttori) e ci restituisce tutta la saggezza cosmica che ci si aspetta dal personaggio, battendo ai punti per talento e carisma un Kevin Costner esageratamente dimesso nel ruolo dell’altra figura paterna della vicenda.
Tutt’altro che noioso, ma troppo pieno di difetti per meritare una promozione a pieni voti, L’uomo d’acciaio denota la scarsa lungimiranza dei suoi produttori, talmente impegnati a fare concorrenza alla Marvel mantenendo il tono cupo a tutti i costi da non accorgersi che il risultato finale rischia di implodere. Manca la kryptonite, si vuole fare per forza qualcosa di innovativo ma alla fine, con un’inevitabile operazione di retrocontinuity, si torna alle origini, a Donner e a un supereroe che più classico e rassicurante non si può.
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Edoardo P. | Giacomo B. | Leonardo L. | Vera S. | ||
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