Dark Shadows, ovvero la dissoluzione di Tim Burton. Prima le informazioni di base: la pellicola è tratta dall’omonima serie TV degli anni ’60 e narra la storia di Barnabas Collins, un vampiro rimasto intrappolato in un sarcofago per 196 anni. Ad attendere la creatura ci saranno gli anni ’70 e la sua nuova famiglia. Il film, al cinema dall’11 maggio 2012, segna l’ottava collaborazione del regista con Johnny Depp, al quale si aggiungono la moglie Helena Bonham-Carter, la ritrovata Michelle Pfeiffer e un cameo di Cristopher Lee.

Una famiglia di freaks, una creatura della notte come protagonista, ambientazioni gotiche, umani disumani (il papà senza cuore Jonny Lee Miller) e fantasmagoriche presenze. Insomma, materiale perfetto per Tim Burton, l’artista statunitense che ha saputo imporre la sua idea di cinema come fenomeno di massa e che ha rivisitato, attualizzato e unito i generi più svariati (dalla novella gotica, alla fiaba, all’horror e molto altro). Tim Burton è un artista personale, un cineasta a cui è sempre importato gran poco di realizzare quello che piace, ma solo quello che piace a lui. Per queste ragioni, lontano dalle dinamiche disneiane di Alice in Wonderland o dalle ragioni economiche de Il pianeta delle scimmie, ci risulta quasi incomprensibile capire il perché in Dark Shadows ci sia così poco della poetica burtoniana. Infatti, la sua ultima opera sembra il frutto di un regista indeciso, stanco e soprattutto con poca inventiva; a partire dal logo standard della Warner Bors all’inizio del film, una volta utilizzato da Burton come prima possibilità di trasportare gli spettatori nel mondo finzionale.

Il prologo narra la nascita del mostro Barnabas, attraverso un flashback ambientato nel 1760; espediente spesso utilizzato da Burton per spiegare nascita e motivazioni dei protagonisti. Nel corso del film, infatti, Burton si servirà del flashback anche per giustificare e ampliare la storia personale di Victoria. L’animo burtoniano c’è, funziona ed è familiare. È con l’arrivo della famiglia Collins, e lo strutturarsi del racconto che iniziano i problemi: il cast è poco approfondito (il personaggio del piccolo David su tutti), alcune storyline inutili (una Helena Bonham-Carter non necessaria, presente solo perché ci deve essere), e senza rielaborare gli elementi in qualcosa di nuovo. Una sceneggiatura miscuglio di eventi non è certo una novità nella filmografia burtoniana: il cineasta è infatti il primo a definire il racconto delle sue opere il peggior intruglio possibile, nonostante ciò il regista ha sempre colmato le mancanze di sceneggiatura con una forte empatia tra pubblico e personaggi. Non è questo il caso. Burton sembra infatti quasi disinteressato a umanizzare i suoi freaks, tanto da renderli antipatici, esponendo solo superficialmente il disagio dell’outsider (manifestato da Depp in un paio di dialoghi) tanto caro alla sua idea di cinema e profondamente sentito dal pubblico. Il cattivo interpretato da Eva Green è infatti uno dei malvagi più deboli del repertorio burtoniano: una strega priva di spessore, molto lontana dalla tragicità di avversari come, ad esempio, il pinguino di Batman Returns; solo la bambola di porcellana ne mostra la poesia. Anche l’aspetto tipicamente melò dell’amore impossibile, altro punto di forza della sua filmografia, è troppo frammentato e veloce per permettere al pubblico di appassionarsi alla vicenda: gli innamorati, infatti, anche se predestinati a stare insieme, si incontrano solo per due o tre volte in tutto il film. La pellicola scorre come una matriosca, aprendo una miriade di trame e sottotrame, fino al finale, fuori controllo, incapace di gestire i personaggi, tanto da essere costretto a ricorrere a battute come “Sono un lupo mannaro ve bene? adesso non facciamone un dramma!” per motivarne le azioni.

In Dark Shadows, come nel più felice Beetlejuice, l’intento è quello di divertire piuttosto che spaventare; purtroppo, esclusi un paio di colpi di genio (la Signora Alice Cooper in primis e in secondo luogo la critica alle icone della società statunitense con l’associazione McDonald/Mefistofele), la comicità sembra adagiarsi su un facile umorismo popolare: la scena di sesso tra Barnabas e Angelique o l’imbarazzante avance sessuale della Dottoressa Hoffman. Il vecchio Burton, invece, si diverte a disseminare citazioni cinefile: La Famiglia Addams (I Collins), The Rocky Horror Picture Show (il personaggio interpretato dal caratterista Jackie Earle Haley, tributo a Riff Raff), La morte ti fa bella (Angelique nello scontro finale), Nosferatu (il vampiro Depp) e goliardiche auto-citazioni, da Edward mani di forbice (le tenaglie che spezzano le catene della bara) alla Sposa Cadavere (l’epilogo), ma non bastano. Ci sono le musiche dei Carpenters, The Moody Blues, i costumi di Coollen Atwood, ma poco Burton. Non resta che dimenticare e partecipare all’happening di Casa Collins, sul palco c’è la Signora Alice Cooper.

Continua a errare su Facebook e Twitter per essere sempre aggiornato sulle recensioni e gli articoli del sito.

Alice C. Chiara C. Giusy P. Leonardo L.
6 5 1 7