Breaking Dawn – Parte 1: la recensione
Breaking Dawn Parte 1, quarta puntata cinematografica tratta dalla fortunata saga Twilight di Stephenie Meyer, è finalmente approdato nelle sale di tutto il mondo, con mossa di mercato di potteriana memoria che prevede non solo la dilatazione dei tempi di uscita, ma anche la suddivisione in due parti dell’ultimo capitolo (la seconda uscirà il 16 novembre 2012).
A capitanare il cast ormai noto sono naturalmente l’eburnea Kristen Stewart (Bella Swan) e lo sfavillante Robert Pattinson (Edward Cullen), ma Taylor Lautner (Jacob Black) ci mette letteralmente lo zampino per minare il monopolio di inquadrature della coppia, catturando ogni tanto l’attenzione del regista Bill Condon (Demoni e Dei, Dreamgirls). Seguono a ruota gli altri membri della famiglia Cullen (tra cui spicca la bella Alice, interpretata da un’Ashley Greene dotata di rara espressività – rara per la saga, s’intende) e della tribù dei Quileute (con l’Alpha dog Sam, cui presta il volto Chaske Spencer), più qualche comparsa di amici e parenti di Bella (in primis il padre Charlie, un Billy Burke perennemente perplesso e spaesato).
Nulla di nuovo sotto il sole, dunque, e tantomeno al riparo dal fulgente e letale astro, nelle tenebre glaciali della vampiritudine. Il problema di fondo del film è proprio questo, l’immobilismo totale che cancella ogni chiaroscuro, riducendo elementi diegetici potenzialmente rivoluzionari (il matrimonio, l’attesa scena di sesso, la gravidanza ibrida) all’ennesima rivisitazione di conflitti talmente inflazionati da non generare più alcuna tensione narrativa. Non aiuta certo la scelta di dividere il film in due parti, mossa giustificata per un testo denso e composito come Harry Potter e i Doni della Morte, ma decisamente avventata per un tomo come Breaking Dawn, la cui corposità nasce dalla prolissità dell’autrice e dall’insistenza sui singoli temi piuttosto che da un’effettiva evoluzione della trama. La quarta sceneggiatura di Melissa Rosenberg risulta infatti dilatata all’inverosimile, tanto che persino i punti di forza della storia si sciolgono nel mare di primi piani infiniti e di dialoghi annacquati che non convincono nemmeno gli stessi interpreti.
Bill Condon si autoinveste della missione di ricercare un’intensità emotiva che filtri al di là del fandom sfegatato e partecipe a priori, come in parte succedeva per Twilight, che a prescindere dall’interpretazione non propriamente varia forniva comunque una rappresentazione coinvolgente del romance proibito. Ma moltiplicare la bidimensionalità registica per quella (in)espressiva di una recitazione sempre più esausta e monocorde non genera alcuna profondità, finendo invece per appiattire ulteriormente qualsiasi barlume di pathos. Così la prima ora di film arranca attraverso una sequela ininterrotta di primi piani che vorrebbero sondare l’animo dei personaggi (ma come Alice non riesce più a vedere il futuro di Bella, così gli spettatori non riescono a percepire le emozioni degli interpreti) e un uso del controcampo talmente esasperato da far invidia a Sandro Piccinini, oltre che battere il record di ping-pong registico stabilito da Eclipse.
Questa tecnica viene usata innanzitutto per riproporre per l’ennesima volta il conflitto lui-lei-l’altro:
Jacob, che diserta il matrimonio per poi fingersi fashionably late, non si arrende nemmeno di fronte all’abito nuziale e ruba un paronomastico ballo con Bella, prima di andare in Bestia quando scopre che la sposina ha intenzione di vivere una luna di miele “reale quanto quella di chiunque altro”. Buongiorno.
Del resto nemmeno i giovani newlyweds paiono troppo convinti della scelta quando, dopo un’inutile tappa a Rio (giusto per dirci che siamo in Brasile), si ritirano sull’isola Esme (“è un regalo di Carlisle”…) per dare inizio alla loro vita di coppia. Si noti la smorfia di Edward che da bravo gentleman (dopotutto ha ricevuto un’educazione ottocentesca nel vero senso del termine) fa il suo ingresso nella nuova dimora portando in braccio la sposa, nonché la perplessità di quest’ultima alla vista del talamo:
Ma i due non si perdono d’animo e in un istante riesumano il (poco compianto) gioco di sguardi che dovrebbe prepararci alla scena clou (e che prontamente spegne ogni briciolo di tensione erotica):
L’attesissimo amplesso, di cui si è tanto parlato anche in rapporto all’ansia da prestazione del Pattinson, mostra finalmente un po’ di passione vera…
… che tuttavia viene puntualmente stemperata nell’ironia sull’incapacità di controllare la forza vampiresca e nel dramma delle conseguenti paturnie del rampollo Cullen, ancora una volta desideroso di proteggere l’amata (al punto da ignorare le sue mise provocanti, effettivamente riuscite). Ma ancora una volta le sue tattiche non sono aggiornate: poiché il concetto di contraccezione non fa parte del suo bagaglio culturale, ecco che accade “l’imprevedibile” (la giustificazione, neanche si trattasse di Fast Times at Ridgemont High, sarà proprio “non credevamo che potesse succedere”).
Questo se non altro mette in moto la storia vera: la gravidanza non solo rischia di uccidere Bella, ma causa anche la rottura del patto di non belligeranza tra vampiri e lupi. La seconda parte del film ci regala quindi finalmente un po’ d’azione, nonché la scusa per rivedere gli splendidi paesaggi intorno a Forks. L’uso di panoramiche e soggettive spezza finalmente la monotonia registica, pur riprendendo lo stile canonico della saga, e il parto imminente permette finalmente di mettere in scena una Bella diversa (nota di merito per il reparto trucco, che la rende sciupata e scheletrica come richiesto dal copione), oltre alle reazioni dei vampiri al tripudio ematico ivi associato. Peccato però per la ricaduta nel consueto simbolismo visivo tanto barocco da risultare parodistico (il Viaggio Allucinante all’interno del corpo umano funzionava molto meglio nell’omonimo film di Fleischer, ma anche in Siamo Fatti Così).
Per fortuna gli eccessi visivi vengono bilanciati da una colonna sonora adatta al mood, un mix di rock, emo e indie pop che trasmette più emozioni della storia stessa (segnalo in particolare “Flightless Bird, American Mouth” di Iron & Wine, che accompagna Bella all’altare, e il testo di “Turning Page” degli Sleeping At Last, in cui “your love is my turning page” ha il doppio significato di “voltare pagina” e di “turning” come trasformazione in vampiro). A chi non ama la serie in partenza conviene quindi saltare la visione e puntare direttamente all’ascolto; ai fan invece resta da attendere un altro anno per la seconda parte, nella quale si spera che il ritorno in scena dei Volturi (qui presenti soltanto in un pallido siparietto che segue i titoli di coda) porti un po’ di azione narrativa e di conseguente movimento della macchina da presa.
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