Di Thor come personaggio della Marvel avevamo già parlato un po’ di tempo fa, ed è oramai da qualche giorno che ne possiamo finalmente vedere la trasposizione cinematografica sotto la direzione di quel bel tomo d’origine teatrale di Kenneth Branagh.

Senza stare a dilungarci troppo sulla storia (Thor combina un casino diplomatico con i Giganti del Ghiaccio, popolazione nemica degli abitanti di Asgard, e viene cacciato in malo modo sulla Terra dal padre Odino, il quale però a sua volta non si è accorto che a tramare nell’ombra, un po’ per caso e poi sempre con maggior convinzione, c’è Loki), vediamo di sgomberare subito il campo da tutte quelle aspettative che avevano gonfiato l’attesa, e che principalmente facevano perno attorno a una proposizione del tipo “oh, han messo Branagh alla regia, ne verrà sicuramente fuori qualcosa di serio e profondo e pseudo-intellettualoide e shakesperiano”. Niente di più fuori bersaglio. Questo Thor va prima di tutto preso alla stessa stregua di una favola, anzi, di una favolona: infarcito di elementi classici (i rapporti fra padre, severo o assente, e figli, infantili o traditi; tra fratello e fratello; tra re e sudditi; tra guerriero e compagni d’armi; tra figaccione iperpalestrato e visino angelico) e di temi di lampante tradizione ammeregana (l’arroganza punita, la ri-formazione del carattere attraverso il sacrificio e l’amore, la disfatta con colpo di coda finale dei cattivi), l’opera di Branagh si presenta come un divertente miscuglione impreziosito da una caterva di effetti visivi e sonori che sembrano non avere mai fine.

Ogni cosa, sotto questo punto di vista, è magniloquente. Dalle pompatissime e ingombrantissime musiche alle varie distorsioni sonore, dalle carrellate continue in e da ogni possibile direzione (vi consigliamo di star leggeri a cena se avete intenzione di vederlo) alle insistite inquadrature sghembe dalle quali sovente vengono fatte partire le varie scene, passando attraverso un profluvio digitale di colori e texture, Thor si offre più come esperienza sensoriale che non narrativa. Poco importa, infatti, se in questo florilegio di elementi la sceneggiatura faccia acqua in più punti, e i dialoghi, così come diversi personaggi, vadano a corrente alternata: quello che conta, in una situazione del genere, è la buona presa degli attori (l’ottimo Tom Hiddleston e il granitico Idris Elba su tutti, anche se una menzione d’affetto particolare va a Tadanobu Asano, nostro mito da più di una decina d’anni), in grado di donare qualche sfumatura leggermente più complessa a una mitologia semplificata e aggiornata agli stilemi della contemporanea cinematografia d’intrattenimento di massa.

Ah, e non perdetevi l’oramai classica sequenza con Samuel L. Jackson dopo la fine dei titoli di coda.

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Davide V.
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