Wolverine – L’immortale: la recensione
La fuga di Logan alla riscoperta dell'amore
Wolverine – L’immortale è per adesso l’ultima trasposizione, interpretata da Hugh Jackman per la regia di James Mangold, dell’antieroe Marvel già portato sullo schermo, con risultati discutibili, nella trilogia di X-Men e nel prequel X-Men – Le origini: Wolverine.
E’ ai fatti narrati nel terzo capitolo di X-Men che il film si ricollega, con Logan che, ossessionato dall’avere ucciso la donna che amava, ha rinunciato a essere Wolverine. La richiesta di aiuto da parte di un vecchio compagno d’armi lo porterà fino in Giappone, dove sarà costretto a sfoderare nuovamente gli artigli in difesa delle persone a lui più care. Ma forse sarà troppo tardi per farlo?
Alla ricerca di nuove strade per le sorti cinematografiche dei suoi mutanti, in parte risollevate da X-Men – L’inizio ma non ancora fortunate come quelle degli Avengers, la Marvel affronta il rilancio di Wolverine con lo stesso schema de Il cavaliere oscuro – Il ritorno e Iron Man 3, cioè destrutturando il supereroe, che risulta per buona parte del film senza poteri, per riscoprirne l’essenza umana: qui, alla perdita dell’immortalità corrisponde una riscoperta del più mortale dei sentimenti, ovvero la capacità di provare amore e di lottare per questo.
Non a caso, ci si affida a un regista valido ma poco avvezzo all’utilizzo di effetti speciali, come James Mangold, che dà vita a un cinecomic complesso ma sobrio, a tratti dark, decisamente più violento della media marvelliana (come era prevedibile con un personaggio cinico e spesso brutale quale Wolverine) ma piuttosto classico nella messinscena, nella quale le sequenze migliori si rifanno all’action più tradizionale (la sparatoria al funerale, la fuga per le strade di Tokyo) e le meno convincenti sono proprio quelle in teoria più spettacolari (completamente fuori luogo il combattimento sul tetto del treno ad alta velocità). Qualche scivolone registico, dovuto alla scarsa perizia di Mangold in materia (interminabile la ripresa in slow motion dell’esplosione nucleare), è riscattato da un discreto bilanciamento fra sequenze d’azione e pause di riflessione, anche se l’utilizzo di scene oniriche con Jean Grey (un’ancora stupenda Famke Janssen) appare un po’ ripetitivo e troppo finalizzato a rafforzare il debole legame con la trilogia precedente.
Principale fonte di ispirazione narrativa è un arco di storie del 1982 – tra i migliori del mutante artigliato – scritto da Chris Claremont e disegnato, tra gli altri, da Frank Miller, dal quale il film si mantiene a distanza di sicurezza per concentrarsi sulla maturazione interiore del protagonista, che da eremita sociopatico (memorabile la prima apparizione sulle montagne canadesi, con barba e capelli lunghi) si trasforma in samurai innamorato perdendo per strada, oltre ai peli superflui, un potere che può essere, a seconda dei punti di vista, dono o condanna, ma del quale lui stesso decreterà il destino. Un Logan mai così braccato e vulnerabile, ma al tempo stesso facile da amare: merito soprattutto della solida interpretazione di Hugh Jackman che ormai, al pari di Robert Downey jr. con Iron Man, si identifica perfettamente con il personaggio, dimostrando notevole carisma.
La caratterizzazione dei comprimari non risulta, però, altrettanto convincente, per colpa in parte delle eccessive e superflue licenze rispetto alla carta stampata, in parte di un cast non sempre all’altezza. Se nel caso della Yukio impersonata dalla modella Rila Fukushima, trasformata da kunoichi senza scrupoli in onorevole samurai girl, il risultato è abbastanza gradevole (nonostante il discutibile doppiaggio italiano di Jun Ichikawa), sono da dimenticare la sadica e caricaturale Viper (personaggio affidato, inizialmente, a Jessica Biel) e l’ottuso Harada, interpretati rispettivamente dai mediocri Svetlana Khodchenkova e Will Yun Lee, quest’ultimo già visto nei cinecomic Marvel con l’altrettanto infelice ritratto di Kirigi in Elektra. Dignitosi la Mariko di Tao Okamoto, divisa fra la fedeltà alla famiglia e i sentimenti verso Logan, e l’ambizioso e malvagio padre di lei Shingen, reso bene da Hiroyuki Sanada, mentre il vecchio capo del clan Yashida, inventato per il film, non rende giustizia all’interprete Hal Yamanouchi, veterano caratterista nipponico di tante produzioni nostrane, che ovviamente si doppia da sé in italiano (con risultati migliori della Ichikawa).
Tirando le somme, si tratta di un cinecomic modesto, quasi minimalista sul piano visivo (dato il budget inferiore a Le origini) e abbastanza intrigante su quello narrativo; almeno fino alla resa dei conti, all’insegna della serie B più baracconesca, con un colpo di scena a dir poco disonesto e una battaglia finale fra le meno entusiasmanti mai viste sullo schermo, contro un nemico che sembra uscito da un episodio dei Power Rangers. Ciò non toglie che, fra le uscite cinematografiche di Wolverine, rimanga la meno scadente. Occhio alla post credits scene!
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Giacomo B. | ||
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