Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate: la recensione
“L’ultimo viaggio nella Terra di Mezzo”: tagline d’obbligo per La battaglia delle cinque armate, ultimo capitolo della trilogia che Peter Jackson ha sfornato facendo lievitare a dismisura gli ingredienti de Lo Hobbit tolkieniano. L’elefantiasi già diagnosticabile nell’impianto stesso della triade incide ovviamente anche sull’episodio finale, che tuttavia risulta nettamente meno diluito dei precedenti, non tanto per il minutaggio relativamente più contenuto (si parla sempre di 144 minuti), quanto per il ritmo bilanciato e l’uso eccellente degli strumenti visivi.
Sin dalla Trilogia dell’Anello il tecnofilo Jackson aveva puntato su tecniche all’avanguardia, costruendo un cinema basato innanzitutto sul piacere del guardare, del perdersi negli immensi paesaggi neozelandesi o del cavalcare l’onda dell’azione. Da un lato è evidente che la trilogia de Lo Hobbit non è (e non poteva essere) all’altezza della precedente, anche solo per l’enorme scarto di ritmo diegetico tra carta e schermo; dall’altro abbandonarsi all’edonismo visivo è una tentazione irresistibile. Anche se non si può usufruire del 3D e/o dei 48 fps dell’HFR (cavallo di battaglia di Jackson), il film è una manna per gli occhi dal primo all’ultimo minuto, con un uso ineccepibile di green screen ed effetti speciali.
Il cliffhanger finale de La desolazione di Smaug viene sciolto con una sequenza mozzafiato dal ritmo videoludico giocata sul contrasto tra il fuoco del drago e l’oscurità della notte, ma anche della Freccia Nera dell’Arciere Bard (Luke Evans), uno dei veri protagonisti del film, alla guida dell’armata degli uomini che cerca di riprendere il tesoro custodito nella Montagna Solitaria. A Erebor però il conflitto subisce una rapida escalation: gli uomini e gli elfi di Thranduil (Lee Pace) sono costretti ad allearsi coi nani contro il nemico comune, gli orchi. Il capo dei nani Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage) dovrà spezzare la propria ossessione gollumiana per il tesoro prima di lanciarsi in battaglia contro le due armate degli orchi (giunte in momenti diversi per accerchiare le forze del bene).
Non manca qualche scivolone (i vermoni Mangiaterra e le Aquile appena accennati; alcuni dialoghi sopra le righe; la superflua storia d’amore tra Kili e Tauriel); tuttavia la battaglia riesce a stregare lo spettatore con continui cambi di prospettiva tra i combattimenti corpo a corpo e l’avanzata delle armate, i nani tarchiati e i troll imponenti, lo scintillante tesoro e le gelide vette innevate. Se pure trionfa l’azione, risultano cruciali gli interventi di un Bilbo (Martin Freeman) sempre più impavido e del provvidenziale Gandalf (Ian McKellen) (liberato da Galadriel in una splendida sequenza a Dol Guldur). È a loro che spetta la chiusura della trilogia, come si conviene: quando Gandalf bussa alla porta di Bilbo nel giorno del centoundicesimo compleanno di quest’ultimo, sulle note del celebre tema di Howard Shore, si chiude finalmente il cerchio (ma si riapre la Storia dell’Anello).
Alice C. | Thomas M. | ||
7 | 7 |
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