Tom à la ferme: la recensione
L'opera di Xavier Dolan che precede Mommy sceglie la via desolata del thriller psicologico
Le parole sono destinate ad essere scribacchiate in lacrimoso inchiostro blu sulle grinze d’un fazzoletto di carta: ad alta voce non si possono dire. Oltre a dover inghiottire il dolore per la morte di Guillame, Tom (Xavier Dolan), che in occasione del funerale ne raggiunge la fattoria di famiglia nella campagna canadese, dovrà tacere i propri sentimenti per non contrariare Agathe (Lise Roy), madre del ragazzo del tutto ignara dell’omosessualità del figlio defunto. Il fratello maggiore Francis (Pierre Yves Cardinal), poi, blandendo e minacciando, sembra intenzionato a difendere il segreto. Forse anche quello della propria latente e simile inclinazione.
Quarta opera del canadese Xavier Dolan, Tom à la ferme s’incasella coerentemente nella costante ricerca di equilibri che contraddistingue l’opera del regista di Mommy. Se il precedente Laurence Anyways era apparso tutto sommato riuscito, ma in nome di un voluto sbilanciamento sul fiammeggiante mèlo psicologico dall’estetica queer, Tom à la ferme propende con travaglio di sottrazione, in cui i filoni di scavo emotivo caratteristici dell’opera del giovane autore – l’omosessualità, i rapporti con la madre, la ricerca dell’identità – sono raccontati in scenari quasi metafisici, quella provincia rurale in cui il malessere carnale si avverte sulla punta delle spighe che tagliano la pelle – come succede a Tom – e si disperde nei fienili cavernosi dove s’improvvisano confessioni e passi di danza.
Si tratterebbe, in altre parole, di quello scontro di forze tra realismo urticante ed artata astrazione, tra violenza e tenerezza che segna l’opera di Dolan, ma virata sul thriller drammatico, ammiccando persino all’horror: il pericolo che incombe, lo psycho pronto ad armarsi – meno pronto, invece, ad amarsi – ma soprattutto certe messinscene impeccabili in cui un personaggio pare smarrirsi, fagocitato, nella stanza vuota o svegliarsi nel bel mezzo d’un incubo. Il risultato è d’una sottigliezza psicologica così “assottigliata”, appunto, da divenire insidiosa come la lama d’un rasoio: le seduzioni di Francis sono aggressive, la debolezza di Tom è evocata dal sinistro parallelo con l’agnellino ribattezzato bitch ass, ma poi è lo stesso ragazzo a rischiare d’esser risucchiato in una spirale di bellicosa follia, quando, sempre in stile Dolan, compare un personaggio “altro” a rimescolare le tenebre.
Assecondato da una fotografia illividita fino all’annerimento, nella seconda parte, in una sorta di notturno della coscienza, del ricordo, dello sguardo, Tom à la ferme è un dramma minaccioso in cui i personaggi vacillano sul filo dell’insano, in una tensione perenne non priva, comunque, di dolente leggiadria.