I ragazzi stanno bene: la recensione
I Ragazzi Stanno Bene è un cine-funambolo che si muove con eterea grazia su un sottilissimo filo d’acciaio, teso sul vuoto senza l’ombra di una rete. Avrebbe potuto indossare un’infinita di costumi di scena, vestendo i panni scintillanti di un queer movie “dichiarato”, oppure un austero completo da opinionista di talk show, che discute i pro e i contro di temi d’attualità come l’inseminazione artificiale e i figli delle coppie omosessuali. O magari infilare l’irritante cravattino del moralista incallito, oppure ancora la camicia mezza sbottonata di uno che la sa lunga, di uno “che tanto i gay sono gay perché non sanno cosa si perdono”.
Con un tema così delicato il rischio di precipitare in una prospettiva troppo stereotipata, guerrigliera o offensiva è davvero alto. Invece la regista e co-sceneggiatrice Lisa Cholodenko, attingendo a piene mani alla propria esperienza personale, riesce a confezionare una pellicola che sa essere realistica e corporea ma non volgare, acuta e riflessiva ma non pedante, eticamente attenta ma mai moralista e infine indulgente e benevola senza mai scadere nel buonismo.
I Ragazzi Stanno Bene non vuole essere un’immagine dell’omosessualità, ma si situa già “oltre”, in una dimensione in cui non contano i cromosomi delle parti in causa, ma contano invece le relazioni umane. Eterosessuali, omosessuali, materne, filiali, simil-paterne, di amicizia, d’infatuazione adolescenziale… la tavolozza è quasi completa, ma il pigmento che illumina ogni tonalità resta sempre la natura umana in tutte le sue sfaccettature.
Certo, l’omosessualità è il motore dell’intera trama, ma la differenza rispetto a un catalizzatore eterosessuale si concretizza unicamente a livello biologico e diegetico: sentimenti e passioni trascendono i confini di gender per trasmettere una carica emotiva in grado di far immedesimare qualsiasi spettatore. Così si parte da una situazione iniziale innegabilmente atipica per giungere a toccare tematiche universali come la ricerca del proprio percorso di vita, il bisogno di amare ed essere amati, la forza del desiderio, la scoperta di sé.
Nic (la pluripremiata Annette Bening) e Jules (una straordinaria Julianne Moore) sono riuscite a trasformare la loro lunga storia d’amore in una famiglia vera e propria, con tanto di figli concepiti tramite inseminazione artificiale (una gravidanza a testa, lo stesso donatore per entrambe) e la cornice perfetta di una luminosa villetta in legno nella California del sud. Quando la figlia maggiore Joni (Mia Wasikowska) raggiunge la maggiore età, il fratello minore Laser (Josh Hutcherson) la convince a rivolgersi alla banca del seme per scoprire l’identità del loro padre biologico. L’arrivo di Paul (Mark Ruffalo), avvenente ristoratore locale nonché centauro e tombeur de femmes, sconvolge l’apparente equilibrio della famiglia, fungendo da cartina al tornasole che mette in evidenza ed esaspera le numerose tensioni già esistenti.
Intorno a lui si intrecciano problematiche talmente universali da far sì che lo spettatore si trovi a prendere le parti di ciascuno dei personaggi, vivendone tutti i sentimenti in un tourbillon emotivo di rara portata. La goffa e timorosa scoperta dell’affetto paterno e quel suo contraltare altrettanto impacciato che è l’innamoramento adolescenziale; la solitudine e l’incomprensione di un rapporto longevo ma vacillante; uno sfogo tanto inatteso quanto insopprimibile; il dolore profondo del tradimento e della disillusione; la volontà di andare avanti mista all’incertezza sulla direzione da prendere.
La Cholodenko racconta tutto questo con sguardo acuto e partecipe che sa spostarsi senza soluzione di continuità dalla dimensione corale di incertezza emotiva ai turbamenti specifici di ciascuno dei personaggi. I temi più spinosi sono affrontati con ironia, ma mai con distacco: il tocco registico è sempre puntuale, concreto e privo di falsi perbenismi (il sesso non è un tabù né verbale né visivo, ma non si scade mai nella volgarità) e contemporaneamente leggero e delicato, in grado di trasmettere la grandezza delle emozioni dei personaggi senza appesantirla con toni melodrammatici. I dialoghi originali orchestrano meravigliosamente l’intreccio di sentimenti e sensazioni (l’attenzione alle sfumature e agli idioletti dei protagonisti merita davvero la visione in lingua originale, che consente per altro non subire l’abbassamento del tenore di comicità che penalizza la versione italiana).
A dar vita alla narrazione contribuisce un cast ottimamente assortito e capace di performance incredibilmente intense: una nota di merito (già concretizzatasi come Golden Globe e come nomination all’oscar come Miglior Attrice) ad Annette Bening, che cela il turbamento interiore dietro una facciata mascolina e severa e dietro i fumi dell’alcol, ma ancor più alla splendida recitazione di Julianne Moore, che miscela fragilità e freschezza, desiderio di sentirsi realizzata e debolezza nei confronti dei propri istinti.
Perfetto anche Mark Ruffalo, che riesce a essere al contempo estremamente sicuro di sé e totalmente in balia degli eventi e delle proprie emozioni e che si lancia alla scoperta della paternità con l’entusiasmo di un bambino, per poi restare invischiato nelle stesse dinamiche del mondo adulto che si era appena deciso ad affrontare. Bravissimi poi i ragazzi, che tanto bene non stanno, ma che sanno trasmettere tutto il loro malaise di adolescenti irrisolti: l’ottima interpretazione della Wasikowska si inserisce molto meglio nel Wonderland dell’adolescenza e dell’inizio del college che in quello burtoniano di dubbia riuscita, mentre il giovane Hutcherson sveste i panni infantili (ma già promettenti) di Terabithia per dar vita a un teenager alla ricerca di conferme e di un punto di riferimento paterno.
Un film d’esplorazione su moltissimi livelli, quindi, ma anche una celebrazione della molteplicità dei modi di amare e di ricercare la felicità che pone tutti gli elementi su uno stesso livello e lascia spazio alla libera ricombinazione, senza porre limiti ma premurandosi anche di evidenziare le conseguenze di ogni cambiamento nell’intreccio di relazioni. Una miscela che ha conquistato Sundance, Berlinale (Teddy Award) e HFPA (due Golden Globe, Miglior Film Commedia o Musicale e Miglior Attrice ad Annette Bening) e strappato ben quattro nomination all’Academy: Miglior Film, Miglior Sceneggiatura Originale, Miglior Attrice Protagonista (Bening), Miglior Attore Non Protagonista (Ruffalo). Da vedere in lingua originale in tempo per la Notte degli Oscar!
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Leonardo L. | ||
7 |
Regista: - Sceneggiatore:
Cast:
Beh io sono andata a vedere il film con delle aspettative molto alte, visto che ne ho lette parecchie recensioni e diverse illuminanti interviste ad Annette Bening e Julienne Moore e, forse per questo sono rimasta un pò delusa. Non mi riferisco tanto alle tematiche trattate, molto attuali ed importanti, quanto alla “lentezza” del film e ad alcune scelte registiche e di sceneggiatura, a mio avviso scontate, che hanno dato quel “non so che” di banale ad un film potenzialmente rappresentativo di uno splendido ritratto di società contemporanea, che si sta lentamente facendo largo tra vecchi pregiudizi e giurassici tabù.
Non mi è piaciuto il finale, questo lo avete sottolineato pure voi, e non mi è piaciuta nemmeno l’uscita di scena di uno scapolo incallito che improvvisamente e senza poesia decide che vuole una famiglia e si innamora addirittura, per poi sparire con un poco commuovente/convincente commiato sull’uscio di casa.
Come ho scritto e come sostiene Alice, le tematiche sono molto belle e la fotografia è fantastica, e dispiace il fatto che questi punti di forza siano stati in un certo senso minati da scelte registiche a mio avviso non troppo curate.
Grazie a te per il commento e torna presto a farci visita, Cinema Errante si arricchisce costantemente di nuovi articoli e recensioni!
GRAZIE ALICE PER AVERMI DATO DEGLI SPUNTI IN PIù NELLALETTURA DI QUESTO FILM. SPERO DI LEGGERTI ANCORA PRESTO
PS: e dopo questo lungo sproloquio… grazie per il complimento sulla recensione e per il commento costruttivo, sono contenta di aver scatenato un dibattito (anche perché non è certo un film che mette d’accordo tutti, anzi).
Non è il primo commento di questo tipo che leggo e devo dire che comprendo bene questa posizione, sicuramente il film non offre risposte adeguate a molti dei problemi che tratta. Mi rendo conto che il fatto che si scelgano tematiche del genere crei l’aspettativa di una trattazione più approfondita e in qualche modo risolutiva. Il fatto è che per come l’ho letto io (e chiaramente è la mia opinione personale, o meglio la ricezione del film a livello istintivo, nel senso che capisco che altri possano recepirlo in modo diametralmente opposto, ma a me ha lasciato quest’impressione) il film non vuole davvero rispondere a domande (pur impellenti) sulla gay parenthood o sulle conseguenze dell’inseminazione artificiale, ma piuttosto portare queste problematiche (che pure, per forza di cose, si configurano in modo estremamente diverso) sullo stesso piano rispetto agli altri problemi relazionali o di crisi d’identità. Mi spiego: su di me il film avrebbe avuto lo stesso effetto se Jules fosse stata sposata per vent’anni con un uomo e avesse riscoperto l’erotismo tradendolo con una donna (anche se ovviamente sarebbero venute meno le premesse della trama). Certo, non posso negare che la rappresentazione del menage familare sia piuttosto stereotipata, ma Jules secondo me non finisce fra le braccia di Paul (solo) perché è la più femminile della coppia, ma perché è la più insicura e la meno realizzata ed è sempre in cerca di un nuovo modo per trovare se stessa (se non erro Nic accenna varie volte ai progetti che Jules ha iniziato e abbandonato). Per quanto riguarda il finale (SPOILER ALERT per chi sta leggendo e non ha ancora visto il film) anch’io ho provato una punta di delusione per la scena che accenna alla normalizzazione che giustamente evidenzi, avrei preferito che si mantenesse l’incertezza, ma più che in termini di normalizzazione l’ho letta in termini di rivalutazione della portata della storia con Paul rispetto a una relazione ventennale che magari non era poi del tutto senza speranza. Se Jules avesse invece scelto Paul avrei avuto più l’impressione che l’omosessualità fosse vista come una “scelta” di ripiego in mancanza del bellone di turno. Avrei comunque preferito eliminare la battuta di Laser e l’inquadratura sulle mani di Jules e Nic, ma anche così mi è rimasta l’idea che per tutti i personaggi ci fosse ancora molta strada da fare prima di ritrovare un barlume di normalità.
Non è mia intenzione polemizzare direttamente con la bella recensione, ma in generale a me questo film è parso molto problematico. Purtroppo (e mi spiace dirlo, visto che le tre attrici mi piacciono) mi è sembrato un’occasione sprecata e un prodotto mirato a solleticare e rassicurare il pubblico etero con una versione moderna dei soliti stereotipi: la divina apparizione maschile manda all’aria il microcosmo lesbico sia come coppia che come famiglia, l’erotismo fra donne è inesistente mentre si dipinge con molto compiacimento il risveglio etero dei sensi, e ovviamente è la più “femminile” della coppia a buttarsi fra le braccia dell’uomo. Si “rimedia” a quest’ammasso di sessismo con un finale di normalizzazione familista, e tutt* a casa. Bleah.