La vita di Adele è un titolo – per una volta fedele all’originale – tanto semplice quanto perfetto: l’ultimo film di Abdellatif Kechiche, vincitore della Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes, è una porzione estesa ed estendibile di una vita, quella di Adèle appunto, che nella provincia francese ha diciassette anni e va a scuola, poi cresce e lavora, ma soprattutto si innamora, ricambiata, di quell’amore travolgente capace di cambiare tutto, di rivelare a se stessi profondità recondite e inesplorate, di illuminare di colori e ombre diversi un’esistenza in divenire. Dell’originaria graphic novel, Il blu è un colore caldo di Julie Maroh, Kechiche prende lo scheletro della storia e tralascia l’impronta melodrammatica e il nome della protagonista Clémentine, che cambia in quello della sua attrice: ed è già una scelta programmatica.

Due capitoli illustrano la vita di Adèle. Il primo è dominato dai tratti tipici dell’adolescenza: amicizie, turbamenti, confusione e domande, mentre faticosamente si cerca di capire se stessi; l’interazione tra compagni di scuola, insegnanti, genitori, che Kechiche ama esplorare fin da La schivata; una sensazione costante di inadeguatezza, che è normale e al tempo stesso terrorizzante. Il secondo è l’età adulta, la maturazione dell’amore, la scoperta della sofferenza, divorante quanto l’innamoramento. L’elemento determinante è chiaramente l’incontro epifanico con Emma, la ragazza dai capelli blu che incrocia lo sguardo di Adèle nell’attraversare una strada. E’ Kechiche che illustra Marivaux, una lezione di francese rimasta in testa, l’assimilazione personale di una suggestione letteraria, in una continuità piena e naturale tra stimolo intellettuale e fisico come succede solo nell’adolescenza.

E’ nella scelta di mettere costantemente in primo piano la corporeità in ogni frangente (a tavola, a scuola, sull’autobus, nel sonno) che Kechiche traduce nel modo più efficace e puntuale possibile il tumulto fisico dell’adolescenza: estenuandoci e sfinendoci (noi e Adèle) con i primi piani, la pelle esposta, gli occhi gonfi, la bocca sporca. Il film non è realistico per il ricorso alla macchina a mano, né per un fantomatico pseudo-documentarismo; è realistico nell’adesione fedele a uno sguardo determinato e particolare, quello della protagonista, che filtra tutte le cose; è realistico nella sua totale, dittatoriale parzialità sul mondo circostante. Così quando Adèle finalmente incontra Emma, per molti minuti e molte sequenze non vediamo che loro; così quando passa del tempo e Adèle ed Emma sono una coppia stabile e vivono insieme, nel capitolo 2, sparisce tutto il resto, perché il mondo familiare e affettivo di Adèle inizia e finisce in Emma.

La vita di Adele esibisce un’estrema coerenza tra lo sguardo del regista e quello della sua protagonista: Kechiche spia, scruta, sfinisce Adèle, rendendo palpabile il debordare del corpo, della fisicità, il desiderio che esplode. E poi trasfigura l’innamoramento di Adèle per Emma sottoforma di blu, quello dei capelli e degli occhi di Emma, quello del cielo, quello del mare, del crepuscolo, della luce di un neon in cui costantemente immerge, affoga Adèle. Adèle ed Emma potevano essere due ragazzi, o un ragazzo e una ragazza: la sostanza dell’amore, dei corpi, del dolore non cambia. L’accettazione della propria sessualità, il conflitto con l’esterno, con la famiglia, sono parte di un altro film, un altro capitolo che non è illustrato qui.

Si sorvola tranquillamente su alcuni schematismi (certe opposizioni semplicistiche tra diverse estrazioni sociali, abitudini alimentari, idee di successo esistenziale) di fronte all’equilibrio di questo racconto fiume che potrebbe non finire mai, punteggiato di sequenze bellissime, sia quando affondano nel naturalismo che quando assumono chiari valori simbolici: il litigio a scuola, la festa di compleanno, il mare; una Louise Brooks sullo sfondo che incarna la consapevolezza dell’adesione a un ruolo artificioso che sarà soppesato e valutato; e Adèle che corre trafelata, Adèle che legge e scrive, Adèle che balla, attraversata ogni volta da un’emozione diversa e visibile. E se lo sguardo di Kechiche è responsabile di tanta vividezza, è impossibile immaginare il film senza le interpretazioni incredibili di Léa Seydoux e soprattutto di Adèle Exarchopoulos. Così come d’ora in avanti sarà impossibile guardare (e fare?) il cinema sull’amore giovane senza pensare ad Adèle.

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