Beyond the Hills: la recensione
Beyond the Hills. La libertà di sacrificarsi per amore. Il film premiato con la migliore sceneggiatura al Festival di Cannes, prodotto dai fratelli Dardenne, non tradisce le aspettative di chi conosce e ama il cinema dei fratelli belgi e ha conosciuto le conseguenze dell’amicizia attraverso 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni di Cristian Mungiu. A partire dall’immagine di apertura: le spalle di Voichita che va contro la corrente di passeggeri che si muove lungo i binari della stazione dove l’attende l’amica Alina. E’ l’inseguimento caratteristico dei personaggi rincorsi dai Dardenne, colti nella loro tranche de vie, ereditato dal Neorealismo italiano di cui i fratelli belgi sono degli estimatori e forse dei prosecutori. Ma giungiamo al film.
Romania, giorni nostri. Alina e Voichita sono amiche sin dall’infanzia. Un’infanzia trascorsa in orfanotrofio. Qui Alina si è presa cura di Voichita e l’ha difesa con le sue mosse di karate. Una guerriera, Alina. Una ragazza che non si arrende. E sono proprio la sua forza ed una volontà ribelle a portare scompiglio nel monastero dove il “padre” e le sorelle di Voichita, ormai suora, l’hanno accolta. Alina vorrebbe tornare in Germania dove è emigrata da anni e portare con sé Voichita, che però non è più la stessa ragazza di un tempo. Alina non sa arrendersi all’idea di una separazione dall’unica persona che ami e decide così del proprio destino.
Attraverso gli occhi di Alina e il suo scetticismo, molto vicino a quello di coloro che hanno avuto un’educazione cristiana dalla quale ci si è allontanati non appena se n’è avuta l’occasione, veniamo introdotti nel mondo rigido e superstizioso del monastero. Qui la vita scorre tutt’altro che oziosa: il lavoro è parte integrante della preghiera ed è un lavoro fisico, duro e temprante. Queste donne ammantate di nero sono dotate di una forza fisica e di un’abilità manuale tali da renderle delle efficaci macchine da guerra contro il maligno. Impossibile cancellare dalla mente la velocità e la destrezza dimostrate nel costruire la barella, una croce su cui verrà legata Alina che si crede posseduta dal demonio. Lo stesso corpo di Alina si riduce a un fascio di nervi irrigiditi e pronti ad esplodere. E’ la forza e la testardaggine del suo amore per Voichita, così oscuro e totalizzante, che non può accettare di essere stato rimpiazzato dall’amore astratto e distante per un Dio invisibile. Alina, infatti, vive la conversione di Voichita come il risultato del lavaggio del cervello cui è stata sottoposta dal padre spirituale. Ecco, allora, che in lei si accende la rivolta e la volontà di voler smascherare le menzogne che crede abbiano cambiato la sua Voichita. Perché nessuno ha mai visto l’icona miracolosa che è nascosta dietro l’iconostasi della chiesa, il luogo del rito ortodosso dove solo i celebranti e dunque solo il padre può entrare? Alina possiede una fiducia cieca nell’amica, una fede incrollabile nella potenza del loro amore. Eppure Voichita non saprà opporsi, ma anzi asseconda a lungo la follia di chi vuol fare del bene attraverso il male, e solo alla fine, quando è troppo tardi, soccorre l’amica fedele.
Si è parlato di libero arbitrio in merito a questa vicenda che ha sconvolto la Romania qualche anno fa. L’intenzione di Mungiu non sembra quella di voler demonizzare la comunità degli ecclesiastici, che spesso nel film sostengono di non poter costringere nessuno a voler accogliere Dio. E’ piuttosto la testardaggine delle due amiche a portarle verso il baratro, la loro incapacità di separarsi. Questa spinta oscura verso il compimento di un unico destino per entrambe, si incarna nel volto serio, ieratico e rassegnato che un’eccellente Cosmina Stratan ha prestato alla sua Voichita e nel corpo nervoso, nello sguardo accigliato e desideroso di amore di Alina, un’ottima Cristina Flutur. Sono la scelta libera di Alina di sacrificare la propria libertà in nome dell’amore, e l’auto-convincimento di Voichita nel credere alla possibilità di un adattamento dell’amica alle regole e alla fede, più che l’oscurantismo e l’ottusità delle suore e del padre, a segnare i destini delle due. Quest’ultimo elemento acquista forza solo perché si nutre dell’indissolubilità del legame delle due amiche, anzi diviene lo strumento attraverso il quale liberarsi dalla schiavitù di un amore e di una dipendenza troppo grandi. E ciò che ne risulta è un film duro come l’abbandono istituzionale (ospedale, orfanotrofio) a cui sono condannate le protagoniste e, di riflesso, l’intera società rumena, commovente e idealistico come la fede cieca di Alina e Voichita, due donne capaci di amarsi fino alla fine.
Scritto da Vera Santillo.
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Antonio M. Barbara N. Giusy P. 9 9 9