LA METAMORFOSI DEL MALE DI WILLIAM BRENT BELL. Un tranquillo week-end di paura per la famiglia Porter: padre, madre, figlio e cane in campeggio, con un intruso che sbrana. Lei sopravvive, e le sopravvivono flashback confusi: l’assassino era alto, peloso, magro, assetato – letteralmente – di sangue. I sospetti ricadono sul disadattato Talan. La giovane avvocatessa Katherine decide di prenderne le difese, assistita da una vecchia fiamma e da un abile ladro d’informazioni, intralciata dall’ambiguo commissario Pistor.

RITROVAMENTI E METAMORFOSI – Sulle prime è uno slow industrial gothic a cadenzare i titoli di testa del film, con sangue posticcio in sovrimpressione su fotogrammi boschivi virati in freddo lunare e flash da luoghi d’un delitto: è un’ouverture più da puntata di serie tv che da grande schermo. Poi il prologo in found footage: immagini da una videocamera privata, quelle semi-ufficiali un interrogatorio in ospedale, la rincorsa alla notizia dei media. E alla fine arriva il corpo mutante del film: camera a spalla, altri inserti di found footage e un montaggio nervoso, che non lesina citazioni da anticaglie – un occhio tagliato in stile Buñuel, quello specchio che fa tanto Henry, pioggia di sangue – ma ibridate ad un’estetica da videogame, tra sparatutto e agili licantropie.

L’ALTRA FACCIA DEL LUPO – Questa, dunque, la pelle che William Brent Bell (L’altra faccia del diavolo) cuce su di un tema vecchissimo, precocemente intuibile per quanto svelato, di fatto, solo a metà film. Per farlo, opta per un linguaggio giovanile e per un’insolita veste da procedural thriller, da far pensare, per atmosfere livide e ambientazione francese, persino a vaghe suggestioni visive dalla serie tv Spiral. La spirale, poi, diventa irresistibile, mantenendo sempre vivo l’interesse più con l’action che con l’horror, purché dopo nemmeno metà racconto si sia disposti a rinunciare a ogni pretesa di credibilità o di finezza. Quasi ordinario, per il genere; pure, comunque, su di una grana così grossa non erano mancate nella prima parte delle piacevoli rifiniture, specie i colloqui tra la bella legale e il bestiale recluso, in cui un rapido stacco sulle vene del collo o su di uno scatto abortito delle dita riusciva ad avvelenare di tensione anche scene apparentemente interlocutorie come quelle negli stanzoni gelidi del commissariato.

Ad ogni accelerazione, La metamorfosi del male – scritto da Matthew Peterman – rivela una certa sbrigatività, ma conserva, e anzi sublima nell’ultima parte, quel ritmo muscolare che lo tiene a galla e che a conti fatti, assieme all’interpretazione del mostro Brian O’ Connor, resta l’unica, salda stampella di un prodotto coraggioso ma incompiuto nelle velleità estetiche. Più che una metamorfosi, il piacevole, bizzarro risultato è quello di un’anamorfosi: una visione deformante di qualcosa di vecchio.

Antonio M.
6