Insidious 3 – L’inizio: la recensione
Il terzo capitolo della serie, con Leigh Wannell alla regia, sancisce… che ormai è una serie
Adesso è ufficiale: siamo di fronte a un caso di possessione – l’insidia della serialità si è impadronita dell’Insidious di James Wan, smontando definitivamente l’atmosfera da brivido del primo film e puntando, con Insidious 3 – L’inizio, sul rimontaggio smaccato degli abili trucchi da paura circense (il demone spunta, all’improvviso, fast and furious), di fobie per eccellenza ma non eccellenti (il buio, i fantasmi), dell’effetto “affetto” per situazioni e personaggi già noti: altro che Altrove, ci si spaventa per inerzia nei soliti tòpoi senza un poi, o per scaltrezza delle usuali tattiche del sussulto. È un peccato che la produzione di Oren Peli (Paranormal Activity) abbia inteso normalizzare la serie – che poi vuol dire renderla un po’ dozzinale: Leigh Wannell, storico collaboratore di James Wan, raccoglie bene il testimone alla regia per testimoniare che proprio non si vuol andare oltre, tutto resta bravura e riciclaggio d’immaginari senza troppa immaginazione.
Per metà film, comunque, si proverebbe ancora a sperare in un esito diverso, prima di accorgersi non tanto che la qualità rispetto all’esordio del 2010 è ormai men che dimezzata, quanto che, come in parte nel secondo capitolo, la scelta è diventata quella di puntare su toni che producono inevitabili cali di tensione: intanto, l’elemento ironico/umoristico incarnato dagli strampalati ghostbusters; poi, l’insistenza sui facili effetti, anche sonori, delle scene cura-singhiozzo, in cui l’improvviso sussulto funziona a raggio breve, ma denuncia una sostanziale superficialità. Per la cronaca: la storia è quella di una ragazza che cerca di contattare la madre e finisce per farsi perseguitare da un misterioso demone, mentre lo spettatore viene perseguitato ancora dalla sensitiva Lin Shaye (per quanto capace di un’interpretazione sensibile) e dai due ghostbusters.
Nessun lampo significativo, dunque, anche se nell’ombra Leigh Wannell sa muoversi, eccome – non solo nelle varianti fotografiche, ma anche nelle visuali e nelle angolazioni con cui si esplorano labirinti d’oscurità, laddove la macchina da presa riesce effettivamente a far perdere l’orientamento. Il risultato è che il duello al buio dell’ultima parte appare gustoso, per quanto avvilito dalla scelta – già deprecata per il secondo film – di avanzare non solo a tentoni, ma anche a sganassoni, con una fisicità fumettistica in certi scontri che stride con la sensazione di dispersione nella tenebra. Pure, la sensazione fisica, quella sì opportuna, dell’inevitabile, dovuta all’incidente che immobilizza la ragazza sulla sedia a rotelle, era stata ben costruita nella prima parte. Evidentemente, troppo saperci fare diventa saper disfare, se si punta a reiterare un prodotto e a ingessarlo piuttosto che a liberarlo dall’infestazione della grossolanità. Camperemo più di ricordi del primo che di speranze sui sequel.
Antonio M. | ||
5 1/2 |
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