Dopo il successo de L’evocazione – The Conjuring di James Wan, qualcuno si era preoccupato di sdoganare prontamente un horror dello stesso regista che in realtà, ai più attenti misuratori di pelle d’oca, era già apparso ben confezionato all’epoca: Insidious. Sarà più difficile, con Oltre i confini del male – Insidious 2, mantenere così caldo quell’entusiasmo: notandosi, innanzitutto, una virata di tono, ancora più marcata per contrasto con la simil-trama del recente L’evocazione, la cui tesissima seriosità diventa, nel chapter 2 di Insidious, una divertita paura in stile horror fiction; in secondo luogo, per la sgradevole sensazione che, con budget maggiorato e fantasia ridotta, il film, grazie anche alla penna rovente di Leigh Wannell, si appresti a diventare un franchise. Il finale semi-aperto non lascerebbe dubbi in merito; lo zampino dei produttori di Paranormal Activity, la solita combo Oren Peli – Jason Blum, ne darebbe conferma; l’unico dubbio sarebbe legato al risultato dei botteghini: ma Oltre i confini del male – Insidious 2, con tutti i propri volutamente non-mascherati difetti, resta un lavoro sufficientemente sporco, destinato a conquistare l’extra-sistole di ansiosi spettatori.

Dove eravamo rimasti? Non è che conti poi così tanto, vista la brillante voga holywoodiana di fare sequel che veri sequel non sono, ossia che possano funzionare anche da soli. Ma tant’è, i personaggi sono in larga parte quelli, salvo nuovi fantasmi: la famiglia happy, perché disinfestata, col buon padre Josh (Patrick Wilson), reduce dall’aver tratto in salvo il figlio Dalton (Ty Simpkins) dal limbo fantasmatico dell’Altrove, in cui era caduto nel primo film, grazie alla mediazione della sensitiva Elise (Lin Shaye), la quale ci ha però rimesso le penne; si aggiunga una moglie dubitosa, Renai (Rose Byrne), che sospetta (?) il marito colpevole della morte della medium; e un cambio di casa, per vivere – e morire – tutti insieme appassionatamente dalla nonnina Lorraine (Jocelin Donahue). Ma come c’insegnava il primo capitolo di Insidious, e in parte anche L’evocazione, sono le persone, e non le case, a subire l’infestazione. Ergo, tutto da rifare? Sì, se il padre dà di matto; ma questa volta, senza Elise e con una squadra di ghostbusters, Lorraine in testa, a indagare tra album di famiglia ed ospedali abbandonati.

SHINING HAPPY PEOPLE – Il padre che diventa una minaccia per la propria famiglia non può che far pensare alla classica sindrome da Jack Torrence in Shining: tanto più se Wilson parla coi fantasmi e sbraita con la moglie, mentre il figlio ha una propria, personalissima luccicanza. Certe inquadrature trasversali, col diaframma della parete e Josh che cerca di raggiungere, con cattivi pensieri, la famiglia barricata nella stanza accanto sfondando porte, sembrano addirittura citazioni pressoché letterali. Ma di là di ogni possibile riferimento – e non osiamo pensare che la porta “rossa” evochi la red rum kubrickiana – i labirinti della mente sono abbandonati per diventare in toto labirinti spazio-temporali. La partita è infatti doppia, giocandosi sia sull’azione nell’immediato che sulla reazione dei morti scomodati da scomode indagini. Nello spazio, ogni luogo è in realtà un para-luogo, coesistente con un Altrove: così per la casa della famiglia allargata, per quella disabitata del serial killer, per l’ospedale abbandonato, tutti popolati di presenze e di arredi che mobilitano la contaminazione inquietante delle dimensioni. Nel tempo, il gioco incrociato dei flashback e delle anticipazioni confonde e annoda, in perfetto manuale thriller, la vicenda del giovane Josh e del suo primo incontro con Elise, con quella di un uccisore dalle ossessioni materne e dalla dubbia sessualità, uno Psyco in versione la sposa era in nero. Tutti infelici, nel limbo della minaccia, dell’ossessione, dell’infestazione, della paura, del ricordo confuso.

CASI NORMALI E CASE PARANORMALI – Se quel che resta dei personaggi è merito dell’invenzione di Leigh Whannell, Wan mostra la propria impronta nella padronanza assoluta dei set domestici: carrellate in avanti e contro-carrellate (quasi esibizionistico il prologo con lentissima zoomata, dal nulla, oltre una porta rossa, sullo stanzino in cui il detective interroga Renai); piani sequenza scivolosi; infinite variazioni sul tema del suono acusmatico, di cui non s’individua l’origine (giocattolini in stile Saw, o l’evergreen del pianoforte che suona da solo); una casa in arredo vittoriano, dove pare sia d’obbligo perdersi e ritrovare nella mobilia qualche spirito; persino uno scantinato-lavanderia che promette rese dei conti. È così avvertita quest’importanza del set, che dà adito al regista di dispiegare trucchi e infusi dalla valigia di una normativa estetica tanto abusata quanto efficacemente rimontata, che a un certo punto il film viene preso anche da un attacco di paranormal-activite, ossia quella singolare congiuntivite dello sguardo quando viene filtrato da qualche telecamerina. L’incursione nella casa abbandonata da parte del team di detective, con i due bislacchi assistenti orfani di Elise, è tutta a spalla, in stile found footage, così come l’effetto del raid nel nosocomio è lo stesso di quello del manicomio di Esp – Fenomeni Paranormali Incontrollabili: inserto interessante, coerente con l’intento principale di Wan d’immergere in un altrove cinematografico che altrove non è, in quanto visto e rivisto; e nondimeno, tra tanta naftalina e polvere di posti dismessi, simili disinvolture concedono boccate d’aria fresca.

Destinato evidentemente a un terzo capitolo, Oltre i confini del male – Insidious 2 non supera i confini di una sceneggiatura non tanto mediocre, quanto volutamente di basso profilo, puntando sul cambio di strategia (la svolta mystery), sul non-cambio rispetto ai vecchissimi affidabili sobbalzi dalla poltroncina, sulla gestione tutta fisica e immediata di un orrore vecchio ed intricato – ancora spaventoso – almeno quanto una casa vittoriana.

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Edoardo P.
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