Horror Ketchup – Paura nella città dei morti viventi: la recensione
Fulci nel primo capitolo della trilogia della morte. O dell'occhio?
Era il caldo 11 agosto del 1980 quando nelle sale cinematografiche italiane a più di uno spettatore dovettero correre brividi lungo la schiena per il release del film Paura nella città dei morti viventi di Lucio Fulci, prima parte della cosiddetta trilogia della morte del maestro dello splatter italiano. Sarebbero seguiti, nel torno di pochi mesi, …E tu vivrai nel terrore! L’aldilà (aprile ‘81) e Quella villa accanto al cimitero (agosto dello stesso anno). Film capitale nel panorama horror degli anni ’80, sarà ancora negli occhi di Quentin Tarantino in Kill Bill vol. 1 (2003), o meglio, negli occhi di un suo personaggio – quella Gogo Yubari (Chiaki Kuriyama) che prima di morire piange lacrime di sangue. E si avrebbe la tentazione di resuscitare una citazione anche in Kill Bill vol. 2, nella scena della Sposa (Uma Thurman) sepolta viva come Mary Woodhouse (Catriona MacColl): la fitta presenza di sepolture premature nell’immaginario horror indurrebbe alla prudenza. Se non fosse per il dichiarato amore del regista cinefilo verso questo film di Fulci (Max, intervista febbraio 2013), il più amato del genere insieme a Profondo rosso di Dario Argento.
AGGIUNGI IL ROSSO A TAVOLA – Ed è profondamente rossa la storia sceneggiata da Fulci insieme a Dardano Sacchetti, ideatore di più di una trovata truculenta. A Dunwich, nel Massachussetts (citazione de L’orrore di Dunwich di Lovecraft), un prete di dubbia ortodossia (Fabrizio Jovine) si aggira nella foschia di un cimitero, gli occhi scavati da profonde occhiaie, in quella che pare sia la cittadina eretta sulle rovine dell’antica Salem. La passeggiata finisce con un’impiccagione che potrebbe propiziare l’apertura delle porte dell’inferno, secondo il millenario libro di Enoch. Frattanto, a New York, la scena viene vista dalla medium Mary durante una seduta spiritica, causandole una morte apparente per infarto. La salverà dall’orrendo destino di sepolta viva un giornalista ficcanaso, Peter Bell (Christopher George): i due danno avvio ad una macabra indagine sulla possibile apocalisse, che intanto, a Dunwich, sembra sul punto di scatenarsi, tra morti che spariscono dall’obitorio, pareti che si crepano, crani sgusciati e preti suicidi che compaiono. Negli occhi.
Della trilogia della morte, Paura nella città dei morti viventi è il film che più di tutti concede all’effettistica profluvi di viscere ed ettolitri di sangue. I morti viventi furono aggiunti nel titolo solo per cavalcare l’onda degli zombie movies, che lo stesso Fulci aveva contribuito ad alimentare con quel marcissimo para-sequel romeriano intitolato Zombi 2 (1979). Il regista aveva pensato di chiamare l’opera semplicemente La paura; e non lo si segnala per mera curiosità: se, da un lato, gli amanti del gore vengono abbondantemente saziati dalla carnalità di tante sequenze torbidamente fisiche, dall’altro è vero che il film funziona a mo’ de Il seme della follia di Carpenter, ma con un’aria cimiteriale alla Roger Corman, più che come semplice film sugli zombie. È insolito, infatti, per i film del filone – e anche in seguito l’idea non sarà particolarmente sfruttata – la comparsa demoniaca dei morti viventi, che poi però spariscono come in un’allucinazione; gli umani possono uccidere con violenza anche maggiore degli zombie, come nella scena in cui Bob (Giovanni Lombardo Radice), il matto che il villaggio sospetta colpevole, viene sorpreso in garage da Mr. Ross (Venantino Venantini) e ammazzato col capo conficcato in un trapano elettrico; l’uccisione più brutale, con una ragazza che vomita le viscere, avviene per la sola imposizione dello sguardo del prete fantasma, così come le lacrimazioni di sangue.
SULL’ORLO DI UNA CRISI DI VERMI – Oltre ai morti viventi, dunque, è la paura a costituire l’ingrediente principale del cocktail, ben shakerato con i cervelli spappolati che gli zombi strappano a mani nude dai crani. Non a caso la scena della sepoltura prematura riprende uno spunto di Edgar Allan Poe già sfruttato da Roger Corman, su di una tipica paura ancestrale; così come gli zombie non sono tanto i carnefici di uno splatter, quanto sulfurei e piagati fantasmi, con tanto di corifeo luciferino nella figura del prete, che annunciano l’aprirsi di una purulenta voragine sul Male. Sullo spunto gotico, declinato nelle forme dello splatter, s’innesta dunque quest’atmosfera da isteria dei segni neri: immancabile la figura dello psichiatra (Carlo De Mejo) che cerca di ammansire la paziente con le visioni (Janet Agren).
Un’isteria che finì per diventare anche reale, come raccontano Paolo Albiero e Giacomo Cacciatore (Il terrorista dei generi. Tutto il cinema di Lucio Fulci, Roma, 2004): la scena della finestra che si spalanca inondando la stanza di vermi, insistita fino al parossismo, avrebbe procurato più di un problema, in seguito, agli stessi attori. Come a dire che la paura striscia sulla pelle, si fa carne, sangue e vermi, ma è anche inafferrabile: le lacrimazioni di sangue o le visioni s’interrompono non appena le vittime s’impongono di non crederci, e soprattutto l’enigmatico e discusso finale è costruito sul nulla, sul dubbio, su uno sguardo che resta sospeso.
OCCHIO PER OCCHIO – Il terrorista di generi Fulci, dunque, strapazza anche il sub-genere: tanto più se si considerano il sapore alla Romero del titolo inglese (City of the Living Dead) e il precedente Zombi 2. Non è una lotta per la sopravvivenza, una guerra morti viventi/vivi come nei film sugli zombi, quanto un film sul sentimento della paura, che prima di tutto è un senso, si esperisce nel fisico: l’ossessione fulciana per gli occhi, già espressa con la famosa scena della scheggia di legno nell’occhio di Olga Karlatos in Zombi 2, sembra riformularsi per affermare lo sguardo come medium della paura. Basterebbe un’occhiata al poster francese per farsi venire un sospetto…
Lo sguardo assassino del prete, gli zombie che scompaiono, la figura della veggente che sa guardare oltre, la paziente con le visioni, persino il volontario indugiare, nella scena dell’uccisione di Bob col trapano elettrico, sull’ago rotante che minaccia il bulbo, per poi segare il cranio: diversamente in …E tu vivrai nel terrore! – L’aldilà, con una serie di scene memorabili sugli occhi cavati, ma soprattutto un finale che getta luce, in qualche modo, sulle “ombre” di Paura nella città dei morti viventi, con la cecità dei protagonisti e la voce fuori campo che recita: “E ora affronterai il mare delle tenebre, e ciò che in esso vi è di esplorabile“. La paura scorre dunque sul sangue, ma passando – per gli occhi – sconfina nelle tenebre della coscienza più profonda.
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