Horror Ketchup – Il bosco fuori: la recensione
Il bosco fuori di Gabriele Albanesi. A volte è proprio necessario inoltrarsi nel sottobosco della produzione horror italiana, per uscire dal luogo comune sulla morte del genere dalle nostre parti. Tra i reanimator nostrani, menzione d’onore spetta a Gabriele Albanesi, che dopo essersi fatto apprezzare presso vari festival con i corti Braccati (2001), L’armadio (2002) e Le mummie (2003), nel 2006 firmava Il bosco fuori, prodotto dai Manetti Bros: ad oggi – ad avviso di chi scrive – il “capolavoro giovanile” di una carriera che si spera produca ancora galloni di sangue.
Aurora (Daniela Virgilio) è una ragazza disinibita e un po’ indecisa. Rino (Daniele Grassetti) cerca di ravvivare il rapporto con lei condividendo la passione in macchina, nei pressi del parco del Tuscolo. Tre bulli rovinano il carnale rendez vous, ma quando Aurora sta per subire uno stupro di gruppo, intervengono Clara (Santa De Santis) ed Antonio (Gennaro Diana), una coppia di mezza età. Messi in fuga gli assalitori – con una pistola… – i due offrono ospitalità ai giovani in una grande villa in mezzo al bosco. Quando si dice: dalla padella alla brace.
Va subito osservato che le sinossi che circolano su Il bosco fuori non rendono merito all’importanza del prologo, in cui una famigliola – padre, madre, figlio – subisce un incidente lungo una strada avvolta nella bruma e fiancheggiata dagli alberi. Il padre perde i sensi; la madre cerca aiuto, ma incontra un macabro destino; il figlioletto vaga nel nulla. La vicenda viene poi “congelata”, per dare la stura ai fatti di Rino ed Aurora. Con quale truculenta potenza, soprattutto visiva, l’incipit si riannodi al corpo, anzi, ai corpi mutilati del filone narrativo principale, è un’apprezzabile raffinatezza.
Per quanto l’horror contemporaneo viva molto di citazione e riciclaggio, un’opera può ancora dirsi riuscita, di là della corsa a perdifiato verso l’originalità, quando mostra una scaltra assimilazione dei modelli ed una reinterpretazione del tutto peculiare di atmosfere e circostanze narrative. In questo senso, il pregio dell’opera di Albanesi risiede nell’aver fagocitato, come un cannibale, gli inevitabili moloch dei vari Craven (L’ultima casa a sinistra), Hooper (Non aprite quella porta) ed una tantum anche Sam Raimi. Il savoir faire hollywoodiano diventa un trucido ce so fa nel contesto di un’opera colta, ma indipendente, che riformula con surreale marciume temi già noti agli aficionados, come quelli della casa delle torture e della famiglia deviata. Surreale è il deliquio di Antonio e Clara, soprattutto di quest’ultima, protagonista di un raccapricciante monologo tra l’ombra ed il sangue, come un mélo in uno scannatoio. Di marcio, ci sono in primo luogo i tre coatti fattoni, veri e propri cani arrabbiati che sembrano ripresi dal Mario Bava più vietato. I due fratelli deformi e dementi, poi, paiono ibridare ancora Craven con Le colline hanno gli occhi, ma il trucco è gradevolmente nostrano, del leggendario Sergio Stivaletti (tra i tanti, Phenomena, Demoni, La maschera del demonio, fino al recente Dracula 3D), che ci regala, tra i tanti momenti cult, l’esplosione purulenta di un bubbone mai così giallo Van Gogh.
Per quanto la sceneggiatura possa rivelare, qua e là, qualche magagna, e la fotografia appaia a tratti un po’ scura, a prevalere è l’effetto di una studiata amatorialità, cruda e poco camuffata, un indimenticabile splatter de li Castelli; che poi, come ogni prodotto genuinamente terrorizzante, ha registrato un discreto riscontro anche sul mercato internazionale, ad esempio in Giappone (distribuito in home video col titolo Italian Chainsaw). Il pericolo del comico o del goffo involontario è sempre riassorbito, entro la medesima cornice malata, con accorte sfumature di tono: dall’incessante ed a tratti drammatica colonna sonora (Filippo Barbieri, Federico Bruno, Silvio Villa) che retentisce nel bieco gorgheggio delle motoseghe, alle affilate incursioni ironiche (“Il prete me lo diceva che me dovevo fa li cazzi mia…”, commenta un personaggio con le budella al vento), fino alla nota patetica, più grottesca e disturbante che toccante, di un singolare abbraccio nel finale.
Con Il bosco fuori, Gabriele Albanesi rinsangua la scena horror italiana, sostenuto da una (in)sana cultura cinefila, da un trucco esplosivo, da un’ironia graffiante e soprattutto da un’innata propensione allo splatter ri-composto e decomposto.
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